Lo spettacolo “Lehman Trilogy” al Teatro Argentina a Roma
Nel Padrino di Mario Puzo si sbarca a New York come Vito Andolini e si diventa Vito Corleone. Il bavarese Heyum Lehmann arriva ad Ellis Island l'11 settembre del 1844 e si trasforma subito in Henry Lehman. In America tutto cambia, persino il nome, e si comincia a cambiare già nella traversata, perché si allarga lo sguardo sul mondo: da astemio, timido e riservato Heyum/Henry diventa in un paio di mesi esperto di alcol, di gioco, di vita.

Nel Padrino di Mario Puzo si sbarca a New York come Vito Andolini e si diventa Vito Corleone. Il bavarese Heyum Lehmann arriva ad Ellis Island l’11 settembre del 1844 e si trasforma subito in Henry Lehman. In America tutto cambia, persino il nome, e si comincia a cambiare già nella traversata, perché si allarga lo sguardo sul mondo: da astemio, timido e riservato Heyum/Henry diventa in un paio di mesi esperto di alcol, di gioco, di vita.
L’epopea della famiglia inizia così, e correrà in parallelo con la storia economica del mondo. Stefano Massini, scegliendo di raccontare questa parabola, e di farlo con il linguaggio del teatro, nello spettacolo di culto “Lehman Trilogy”, offre un compendio dell’ultimo secolo e mezzo di capitalismo, dei suoi trionfi e delle sue cadute, e soprattutto delle sue trasformazioni: dal commercio alla finanza, dai tessuti ai derivati, passando per la nascita delle Borse e per un paio di rivoluzioni industriali.
La pièce, ultima regia del compianto Luca Ronconi, arriva finalmente a Roma, al Teatro Argentina (25 novembre-18 dicembre), accompagnata da un’eco fragorosa: testo tradotto in otto lingue, rappresentazioni in altri Paesi europei e in Canada. Una vicenda di capitalismo familiare, dai tratti marcatamente ebraici, che si fa globale e, progressivamente, si perde: quando la Lehman Brothers fallisce, il 15 settembre del 2008, innescando la più grande crisi economica del secondo Dopoguerra, il suo presidente, nonché amministratore delegato, si chiama Dick Fuld e della famiglia Lehman c’è ben poca traccia.
Era iniziata in maniera diversa, con tre fratelli: Henry (Massimo De Francovich), la mente, Emanuel (Fabrizio Gifuni), il braccio, e Mayer (Massimo Popolizio), il più piccolo, indispensabile “perché il braccio non schiacci la testa e la testa non umili il braccio”. La domenica si può e si deve lavorare, è finito lo Shabbat e si fanno grandi affari laggiù a Montgomery, in Alabama, perché tutti vanno in Chiesa e non possono non notare quella scritta gialla su sfondo nero: Henry Lehman – poi “Lehman Brothers” – venditore di tessuti. Come spesso accade, l’occasione nasce dalle altrui disgrazie: i campi di cotone prendono fuoco e i tre fratelli, che, con una certa intuizione, avevano acquistato semi e attrezzi, sono la risposta. Finanziano la ripresa delle attività in cambio di un’ipoteca, un terzo del raccolto. Quando muore Henry, Emanuel il braccio e Mayer “il diplomatico” (“Kish Kish”, Baci Baci) creano un mestiere nuovo, quello di stare nel mezzo. Sono i mediatori, gli intermediari (“che razza di mestiere è?”, chiede il padre di Babette, la futura sposa di Mayer; “non esiste, lo inventiamo”). Ventiquattro piantagioni di cotone nel Sud, cinquantaquattro compratori di cotone nel Nord. Una macchina perfetta, fino a quando non arriva la guerra: il Meridione secede e Montgomery ne diventa la capitale. Confederazione contro Unione. E anche se i Lehman pagano l’esenzione dall’arruolamento, come è possibile adesso stare nel mezzo? Come fa il cotone a diventare banconota?
I Lehman si salvano perché fanno scelte opposte: Mayer rimane con gli sconfitti e finanzia la ricostruzione gestendo i fondi governativi, con la sua Bank of Alabama. Emanuel incarna lo spirito di New York, la città che “offre il meglio dell’America e l’eco dell’Europa”, diventa l’emblema della nuova aristocrazia borghese che ha sede nel mercato in cui si vende tutto ma non c’è nulla, “non c’è il ferro ma la parola ferro”, “non c’è il carbone ma la parola carbone”: Wall Street, “una sinagoga coi tetti più alti di una sinagoga”, laddove, volterrianamente, l’ebreo convive con la protestante, con il cattolico, persino con l’ateo.
Ma è già tempo, se non di farsi da parte, quantomeno di farsi affiancare: i tempi cambiano rapidamente e la generazione successiva deve insegnare le regole del gioco a quella precedente. Philip (Paolo Pierobon), figlio di Emanuel, lingua svelta e vedute lunghe, è andato a scuola con i Goldman, i Sachs, i Blumenthal, sa che per costruire compiutamente gli Stati Uniti ci vogliono i treni e che la nuova dialettica non è Nord/Sud, roba da nostalgici, ma Est/Ovest: la corsa all’oro, il mito della frontiera. Altro che case popolari, si vendono obbligazioni per finanziare la costruzione delle ferrovie: perché mettere i soldi in prima persona quando si possono chiederli agli altri?
Il nuovo cocchiere è lui, Philip. Bisogna cogliere lo spirito dei tempi, “arrivare alle cose semplici prima che diventino semplici”, capire che un ombrello costerà più di tre dollari se il New York Times scrive che domani pioverà. La Lehman si quota in Borsa, vende il proprio nome, diventa Lehman Corporation: fondi comuni d’investimento, soldi per fare soldi, finanza pura, nessun mercato da esplorare o industria da finanziare. Fino a che l’automobile targata Wall Street, priva di freni, si schianta: è il 24 ottobre del 1929, e per anni l’unico obiettivo sarà quello di sopravvivere al diluvio.
Lehman ci riesce. Il New Deal rooseveltiano non esalta (“era meglio il vecchio, costava meno”), anche se avere un cugino in politica – rooseveltiano, peraltro, Herbert, figlio di Mayer, quello che da piccolo criticava Dio per avere inferto le piaghe al popolo d’Egitto – non guasta. Il business nasce dalla nuova guerra, quella scatenata da Pearl Harbour, e soprattutto dalla ricostruzione, che è globale. L’impero dei Lehman e dei loro partner è come quello di Carlo V: il sole non vi tramonta mai. Non tramontano mai neppure i profitti, perché nei favolosi anni Sessanta, raccontati così superbamente da Mad Men, c’è la paura dell’atomica ma il “grande balzo” dei consumi: non si compra più per bisogno, ma per istinto, o per identità.
Siamo tutti uguali perché abbiamo tutti un conto in banca, dice Robert, figlio di Philip, che ha studiato a Yale. Chi possiede una banca può aspirare all’immortalità. E invece non sarà così. Perché quando entrano in scena i trader – figure mostruose, nell’estetica ronconiana – non è più affare da salotti. Si balla il twist, sempre più forte, e fermarsi è vietato. Quando la banca muore, i Lehman sono già fuori gioco da tempo, e non resta che recitare il kaddish.
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