La corsa al riarmo ha contagiato tutti i continenti, una tendenza globale, concernente tanto gli armamenti convenzionali come quelli nucleari. Nel 2023, nel mondo si sono spesi 2.440 miliardi di dollari in armamenti, il 6,8% in più rispetto all’anno precedente.
Nell’agosto del 1975, 33 Stati firmavano le conclusioni della Conferenza di Helsinki inaugurando una fase di distensione tra Est e Ovest. L’atto finale proponeva un insieme di principi fondamentali, tra i quali il non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, l’inviolabilità delle frontiere, l’integrità territoriale degli Stati, la composizione pacifica delle controversie e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Da quell’appuntamento, anni dopo nacque l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), di cui fanno parte i paesi europei, gli Stati Uniti, il Canada, la Russia e gli Stati nati dalla dissoluzione dell’Urss e della ex Jugoslavia. Quasi cinquant’anni dopo, di quello che fu allora definito lo “spirito di Helsinki” rimane ben poco. La Nato, col sostegno della diplomazia europea, ha dato il via libera alla revoca da parte degli Stati membri della restrizione all’uso delle armi inviate all’Ucraina fuori dal suo territorio. In risposta la Russia, che nel conflitto armato si sta spingendo sempre di più a ridosso del confine, ha minacciato di ricorrere a misure nel campo della deterrenza nucleare.
Il rischio di escalation militare è coerente con la corsa al riarmo che ha contagiato i diversi continenti. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2023, nel mondo si sono spesi 2.440 miliardi di dollari in armamenti, il 6,8% in più rispetto all’anno precedente, finiti in investimenti di modernizzazione e innovazione degli arsenali. Per avere un ordine di grandezza nel confronto tra diversi flussi di spesa, basterà dire che la spesa militare è stata circa dieci volte superiore a quella in aiuti internazionali e assistenza allo sviluppo.
Nella scorsa legislatura europea è iniziato un processo di cambiamento sostanziale del progetto comune, con l’obiettivo di fare della Ue una potenza geopolitica. In più di un’occasione si sono consolidate le capacità comuni, anche a costo di varcare quelle che un tempo erano considerate linee rosse invalicabili, per rafforzare il principio di “sovranità europea”. E’ successo nel caso dell’indebitamento pubblico e dell’acquisto di farmaci in pandemia, in quello dell’approvvigionamento di fonti energetiche alternative a quella russa, nel campo della difesa con l’avvio di meccanismi di coordinamento nell’industria degli armamenti e la facilitazione di invio di armi in Ucraina. Nell’ambito della difesa, gli ultimi cinque anni hanno visto la Ue impegnata, oltre l’Ucraina, in sette operazioni militari comuni, compresa quella nel Mar Rosso per proteggere le navi mercantili dagli attacchi degli Houthi.
L’incremento della spesa militare è stato generalizzato nei diversi paesi dell’Unione. Una corsa al riarmo che rappresenta una tendenza globale, concernente tanto gli armamenti convenzionali come quelli nucleari e che ha trovato nell’Europa un interprete particolarmente attivo. L’International Institute for Strategic Studies, nel suo ultimo rapporto relativo al 2023 (IISS, “The Military Balance 2024”) sostiene che la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio-Oriente, le tensioni con la Cina e l’incertezza sul prossimo titolare della Casa Bianca hanno creato lo scorso anno “un contorno di sicurezza altamente volatile”, annunciando “un decennio più pericoloso”.
Sono dieci i paesi, guidati da Stati Uniti, Cina e Russia, ad aver speso in armamenti, lo scorso anno, la maggior parte dei 2.440 miliardi di dollari segnalati dal SIPRI, l’istituto indipendente con sede a Stoccolma, creato nel 1966 per commemorare i 150 anni di pace ininterrotta in Svezia. Una cifra peraltro analoga a quella proposta dall’IISS, think thank con sede a Londra, fondato nel 1958 – 2.200 miliardi di dollari – nel suo rapporto sopra indicato. La spesa militare, secondo l’istituto svedese, è aumentata nel 2023 per il nono anno consecutivo e per la prima volta in tutti i continenti, con incrementi importanti in Europa, Asia, Oceania e Medio Oriente.
Lo scorso anno, i paesi della Nato hanno consumato il 55% del totale della spesa militare, 1.340 miliardi di dollari. Tra questi, gli Stati Uniti hanno aumentato la spesa in armamenti del 2,3%, fino a raggiungere la cifra di 916 miliardi, il 68% della spesa militare dell’Alleanza atlantica, il 37,5% della spesa militare mondiale. La gran parte dei paesi europei membri hanno aumentato la propria spesa militare, tanto da rappresentare il 28% della spesa totale della Nato.
La Cina, con i suoi 296 miliardi di dollari, determinati da un incremento di spesa del 6% rispetto all’anno precedente, è il secondo paese al mondo con maggiore spesa militare (il 12,1%).
La spesa in armamenti in Russia è invece cresciuta, nel 2023, del 24% rispetto all’anno precedente, per un ammontare stimato di 109 miliardi di dollari, il 57% in più rispetto al 2014, il 4,5% della spesa militare globale. Un ammontare di risorse che rappresenta il 16% della spesa pubblica totale del paese e pesa sul Pil russo per il 5,9%.
In relazione ai conflitti in corso, nel 2023 sono aumentate significativamente anche le spese in armamenti di Ucraina e Medio Oriente. In particolare, in Ucraina la spesa per il riarmo è aumentata del 51% rispetto al 2022, rappresentando il 58% della spesa pubblica totale e una percentuale sul Pil del paese del 37%. La guerra della Russia in Ucraina ha determinato un aumento del bilancio militare dei paesi della Nato pari al 16%, con una spesa media del 2,8% sul Pil, superiore alla soglia del 2% fissata nel 2014 dall’Alleanza atlantica. Mentre in Medio Oriente la spesa militare stimata è aumentata del 9%, l’incremento maggiore nell’area negli ultimi dieci anni. Il Medio Oriente è l’area nel mondo in cui si registra anche l’onere militare sul Pil più alto: il 4,2% contro il 2,8% dell’Europa, l’1,9% dell’Africa, l’1,7% di Asia e Oceania e l’1,2% delle Americhe.
Il confronto tra le maggiori potenze nucleari quali sono gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, in relazione alle guerre in corso, aumenta la possibilità che si arrivi a utilizzare le armi nucleari, anche se solo in via accidentale. Inoltre, va considerato il salto tecnologico nei sistemi militari dato dall’avanzare impetuoso dell’intelligenza artificiale.
E’ stata la guerra in Ucraina ad accelerare in modo così significativo la corsa al riarmo nel continente europeo. I paesi europei, infatti, percepiscono la loro inadeguatezza in scorte militari rispetto alla Russia e perciò si preoccupano di riportarle al livello precedente, mentre continuano a sostenere militarmente l’Ucraina, si legge nel rapporto del SIPRI. In particolare, la Polonia ha investito il 3,9% del Pil nel settore militare, con un aumento della spesa dedicata nel 2023 del 75%. Negli ultimi dieci anni, la spesa militare nella Ue è aumentata del 50%. I paesi che hanno generato un incremento maggiore di spesa militare sono quelli confinanti con la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina.
Questa corsa al riarmo europeo, col ritorno alle regole del patto di stabilità, va a scapito delle altre componenti di spesa pubblica, modificando l’ordine delle priorità. Secondo il rapporto “Arming Europe” di Greenpeace, pubblicato nel novembre 2023, nell’insieme dei paesi Ue della Nato, tra il 2013 e il 2023, il Pil in termini reali è cresciuto del 12%, l’occupazione del 9% e la spesa militare del 46%. Perché, suggerisce il rapporto, se è vero che anche la spesa in armamenti, come qualunque spesa pubblica, aumenta la domanda globale, il suo impatto sulla crescita economica e sull’occupazione è minore rispetto alla spesa per l’ambiente o la sanità.
Secondo il rapporto SIPRI già citato, i produttori europei, comprese le aziende del Regno Unito, nel 2020 rappresentavano il 19,9% del totale delle vendite di armi delle prime 100 aziende che operano nel settore della difesa. Le prime tre imprese europee produttrici di armi erano, nel 2021, la britannica BAE, l’italiana Leonardo e la franco-tedesca-spagnola Airbus. Le aziende con sede in Europa sono 26 tra le prime 100 del settore militare nel mondo. L’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), istituita nel 2004 come agenzia intergovernativa della Ue che promuove l’industria della difesa e la collaborazione degli Stati membri, stima il fatturato dell’industria europea della difesa in 84 miliardi di euro nel 2021, per un’occupazione diretta pari a 196.000 posti di lavoro e un indotto di 315.000 posti di lavoro.
L’Unione europea si è dotata di alcuni strumenti dedicati alla capacità di prevenire i conflitti, preservare la pace e rafforzare la sicurezza internazionale e la stabilità. E’ il caso della European Peace Facility (EPF), adottata dal Consiglio europeo nel marzo del 2021, che è stata dotata finora di fondi pari a 17.000 miliardi di euro, 11 dei quali sono stati impegnati a sostenere le forze armate ucraine, tra il 2022 e il 2024.
La Commissione si è dotata di un altro strumento per sostenere la ricerca e lo sviluppo nella difesa, l’European Defence Fund (EDF). L’EDF ha un budget 2021-2027 di circa 8.000 miliardi di euro, dei quali 2.700 miliardi per la ricerca comune nella difesa e il resto per sviluppare progetti comuni.
Il parlamento europeo appena eletto dovrà negoziare il prossimo bilancio pluriennale della Ue per il periodo 2028-2034: sarà quella l’occasione per verificare le posizioni dei diversi gruppi politici relativamente al potenziamento di strumenti comuni nel campo della difesa.
Nell’agosto del 1975, 33 Stati firmavano le conclusioni della Conferenza di Helsinki inaugurando una fase di distensione tra Est e Ovest. L’atto finale proponeva un insieme di principi fondamentali, tra i quali il non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, l’inviolabilità delle frontiere, l’integrità territoriale degli Stati, la composizione pacifica delle controversie e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Da quell’appuntamento, anni dopo nacque l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), di cui fanno parte i paesi europei, gli Stati Uniti, il Canada, la Russia e gli Stati nati dalla dissoluzione dell’Urss e della ex Jugoslavia. Quasi cinquant’anni dopo, di quello che fu allora definito lo “spirito di Helsinki” rimane ben poco. La Nato, col sostegno della diplomazia europea, ha dato il via libera alla revoca da parte degli Stati membri della restrizione all’uso delle armi inviate all’Ucraina fuori dal suo territorio. In risposta la Russia, che nel conflitto armato si sta spingendo sempre di più a ridosso del confine, ha minacciato di ricorrere a misure nel campo della deterrenza nucleare.