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Libano: una democrazia in coma


In uno scenario sempre più critico, l’ex premier Hariri è disponibile a un nuovo mandato e a nuove riforme. Ma i libanesi non credono più nei miracoli

In condizioni normali basterebbero i dati sulla pandemia, e la sua emblematica marginalità nella scala delle preoccupazioni dei libanesi, per disegnare i tratti del dramma. In Libano – esteso come l’Abruzzo, 6 milioni di abitanti – si viaggia ormai da più di un mese sui 1500 nuovi positivi al Covid-19 al giorno, per un totale di più di 60mila casi: un ritmo al quale non sembra lontano il giorno in cui il coronavirus sarà entrato nel corpo di una persona su trenta. In condizioni normali sarebbe folle non disporre un lockdown totale ma di normale, qui, è rimasto ben poco, tanto da far sembrare la pandemia un’emergenza secondaria, gestibile con l’attenzione personale e blande misure. Non c’è più spazio per ulteriori ansie, che rimbalzano sul muro della disperazione.

Alla fine dello scorso luglio la Polizia libanese, nell’elencare l’aumento dei reati nel corso del 2020, riferiva di una nuova tipologia di furto: quello di pannolini, latte in polvere e medicine. Erano già tempi drammatici, con la pandemia in ascesa, una disoccupazione giovanile ben oltre il 40%, un tasso di povertà del 55% (28% un anno prima), un sistema bancario in decomposizione, una valuta a picco e un’inflazione annuale del 120%, che aveva conferito al Libano l’infausto primato di primo paese mediorientale a fare i conti con l’iperinflazione.

Le dimissioni di Hariri e la mediazione francese

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