In condizioni normali basterebbero i dati sulla pandemia, e la sua emblematica marginalità nella scala delle preoccupazioni dei libanesi, per disegnare i tratti del dramma. In Libano – esteso come l’Abruzzo, 6 milioni di abitanti – si viaggia ormai da più di un mese sui 1500 nuovi positivi al Covid-19 al giorno, per un totale di più di 60mila casi: un ritmo al quale non sembra lontano il giorno in cui il coronavirus sarà entrato nel corpo di una persona su trenta. In condizioni normali sarebbe folle non disporre un lockdown totale ma di normale, qui, è rimasto ben poco, tanto da far sembrare la pandemia un’emergenza secondaria, gestibile con l’attenzione personale e blande misure. Non c’è più spazio per ulteriori ansie, che rimbalzano sul muro della disperazione.
Alla fine dello scorso luglio la Polizia libanese, nell’elencare l’aumento dei reati nel corso del 2020, riferiva di una nuova tipologia di furto: quello di pannolini, latte in polvere e medicine. Erano già tempi drammatici, con la pandemia in ascesa, una disoccupazione giovanile ben oltre il 40%, un tasso di povertà del 55% (28% un anno prima), un sistema bancario in decomposizione, una valuta a picco e un’inflazione annuale del 120%, che aveva conferito al Libano l’infausto primato di primo paese mediorientale a fare i conti con l’iperinflazione.
Le dimissioni di Hariri e la mediazione francese
C’era stato un momento, a partire dal 28 ottobre del 2019, in cui il senso di rassegnazione a cui erano abituati e l’adrenalina della protesta interconfessionale iniziata dieci giorni prima – il 17 ottobre 2019 – avevano generato nei libanesi scesi in piazza una sorta di sollievo collaterale, nonché una spinta a non recedere dalle proprie posizioni, ostili all’intero establishment. La convinzione che, se era inimmaginabile star peggio di così, le dimissioni di Haririannunciate quella sera di fine ottobre avrebbero finalmente inclinato il piano a favore del cambiamento. Quel momento è durato poco più di un mese: il tempo di capire che il quadro poteva invece anche peggiorare, anche con un nuovo governo “tecnico”, guidato dal professor Hassan Diab, nominato il 21 gennaio.
Due anni prima dell’inizio delle proteste, la sera del 4 novembre 2017, l’allora premier libanese Saad Hariri era comparso all’improvviso sulla tv emiratina di Al Arabiya. In diretta dalla capitale saudita Riyad, anche in quella occasione Hariri si era rivolto ai suoi connazionali per annunciare le dimissioni, poi ritrattate in seguito alla mediazione del Presidente francese Emmanuel Macron. Hariri, prigioniero de facto della monarchia saudita, era stato indotto a lasciare l’incarico dagli stessi Al Saud, per porre fine ad un esecutivo nel quale Riad ravvisava l’eccessivo peso di Hezbollah.
Un episodio che gettava l’ennesima luce sulla sovranità limitata del Libano: un Paese esposto al giogo di Paesi terzi, che promuovono agende inconciliabili tra loro attraverso la pressione sui partiti settari locali, che da un lato si ergono a rappresentanti delle loro comunità di riferimento e dall’altro agiscono da sponsor di questi attori regionali (Iran e Arabia Saudita in particolare). Il relativo disincanto, il disinteresse dei libanesi rispetto ad una pur così esplicita violazione della propria sovranità poteva essere un’avvisaglia dello sfaldamento in corso.
La corruzione e il malgoverno
Non lo è stata perché la lente degli osservatori era impostata sul grandangolo – sul ruolo che il Paese rivestiva nelle strategie regionali di altri Paesi -, laddove quella dei libanesi era regolata sulla dimensione locale: il malgoverno, il clientelismo, la corruzione. Elementi che nutrono un sistema neopatrimoniale nel quale i partiti confessionali usano le risorse dello Stato non come beni pubblici ma come monete di scambio, per assicurarsi la fedeltà elettorale nelle loro constituencies.
Una democrazia parlamentare in coma profondo, malata di tutti i mali di cui può ammalarsi una democrazia – sfiducia della società civile, ingovernabilità, polarizzazione, normalità del voto di scambio, accountability quasi inesistente -, cui si aggiungono le conflittualità di un Paese che non ha mai attraversato una vera fase di riconciliazione post guerra civile, in cui lo Stato è in balia delle forze politiche confessionali a cui aveva delegato la gestione di un territorio cantonizzato.
Il fatto che il Libano non sia un regime o un’autocrazia militare tende paradossalmente a frammentare il quadro: non c’è un unico colpevole, perché colpevole è l’intero ambiente politico-sociale, un sistema di potere che fino al 17 ottobre 2019 è riuscito a vendersi presso la società civile come irrinunciabile garante del precario equilibrio interconfessionale. Partiti che rivendicano la tutela di diritti confessionali (“diritti dei cristiani”, “diritti dei musulmani”), mentre decine di migliaia di giovani invocano diritti universali, connessi alla cittadinanza, e dignità.
Le banche
Il giorno delle dimissioni di Hariri da Riad, il Libano era già un Paese corrotto – tra i primi 50 più corrotti al mondo, secondo Transparency International -, estremamente diseguale, in cui l’1% della popolazione deteneva circa il 25% della ricchezza mentre il 30% viveva sotto la soglia di povertà, in cui l’accesso continuo alla corrente elettrica era un costoso optional per quasi tutti, tranne che per una ristretta cerchia di persone.
L’indomani delle dimissioni di Hariri di ottobre 2019 le banche libanesi riaprono i battenti, dopo due settimane di chiusura disposta per il timore di danneggiamenti. Con una novità: il controllo sui capitali, i limiti ai prelievi. I primi segnali di insolvenza di un sistema bancario che garantiva un esorbitante 15% sui depositi, in un’economia che non produce praticamente nulla, e che non cresce più da qualche anno. Da quel momento, un crollo inesorabile: il dollaro – agganciato alla lira con un cambio fisso di 1500 lire, sostenuto dalla Banca centrale – a novembre passa a 2000 lire libanesi; a dicembre alcuni facoltosi politici locali trasferiscono all’estero circa 6 miliardi di dollari.
Si formano lunghe code ai bancomat: chi prima era abituato a usare indifferentemente due valute è costretto a prelevare una minima parte in dollari per poi cambiarli in lire al mercato nero. Il dollaro tocca le 4000 lire a maggio e schizza ad 8000 a giugno. Il salario minimo reale passa da 450 dollari a poco meno di 80, mentre i prezzi aumentano fino al 70%. Forse per la prima volta, a Beirut si vedono libanesi rovistare nei cassonetti dell’immondizia. La polizia locale fa sapere che da gennaio ad agosto le rapine sono aumentate del 50%, e sono raddoppiati sia gli omicidi che i furti d’auto. La classe media si ritrova povera da un giorno all’altro.
L’esplosione al porto di Beirut
Come se non bastasse, il 4 agosto al porto di Beirut esplodono 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio, da 7 anni parcheggiate in un deposito che dista 200 metri dal centro abitato. Poche settimane prima l’autorità portuale aveva fatto sapere che il volume di import che passava per il porto era crollato del 50% nel primo quarto del 2020. Nell’esplosione, che provoca quasi 200 morti, 6500 feriti, migliaia di sfollati e danni materiali per circa 2 miliardi di dollari, si “immolano” gli enormi silos di mais, grano e orzo situati a pochi metri dal deposito di nitrato.
Immolarsi è la parola giusta, visto che i silos (oltre cento metri di larghezza) avrebbero svolto la funzione di “ammortizzatori” dell’onda d’urto verso ovest, risparmiando dall’inferno quasi tutta la zona ovest della città. A caro prezzo: in pochi minuti svaniscono le scorte di cereali per 6 mesi. Dopo “Beirutshima”, il premier Diab si dimette usando toni spettrali, come se parlasse di un tumore incurabile: “Dicevamo che la corruzione era diffusa in tutti i gangli dello Stato. Poi ho scoperto la corruzione è più grande dello Stato stesso, che in essa è intrappolato e non sa liberarsene”. Il 1 settembre, dopo la doppia visita di Macron, a sorpresa viene designato Primo Ministro Moustapha Adib, ambasciatore a Berlino. Dopo venti giorni di conflitti tra le diverse forze politiche per l’assegnazione di alcuni ministeri, anche lui getta la spugna con parole sgomente: “chiedo scusa a tutti per non essere in grado di formare un Governo”.
Quale direzione?
Oggi il Libano si trova a vivere una “interminabile serie di dolori intrecciati”, come scrive Timour Azhari su Al Jazeera. A Tripoli, seconda città del Paese, più di una persona su due è disoccupata. Nel sud, gli scaffali dei supermercati rimangono vuoti per un numero sempre più alto di giorni consecutivi. In alcune zone del Libano qualche esercizio commerciale inizia a razionare la propria merce, come racconta Jad. “Sono andato a fare benzina e mi hanno detto che potevo mettere solo 25000 lire, e al tabaccaio del distributore mi hanno fatto comprare un solo pacchetto di sigarette. Andrà sempre peggio”.
Mentre l’ex premier Saad Hariri si dichiara nuovamente disponibile per un mandato, all’orizzonte del Libano c’è l’abisso della fine dei sussidi statali sulla benzina e sui medicinali. A partire da gennaio anche i prezzi degli ultimi beni fondamentali potrebbero schizzare alle stelle. Poi, non ci sarà quasi più nulla da perdere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
In condizioni normali basterebbero i dati sulla pandemia, e la sua emblematica marginalità nella scala delle preoccupazioni dei libanesi, per disegnare i tratti del dramma. In Libano – esteso come l’Abruzzo, 6 milioni di abitanti – si viaggia ormai da più di un mese sui 1500 nuovi positivi al Covid-19 al giorno, per un totale di più di 60mila casi: un ritmo al quale non sembra lontano il giorno in cui il coronavirus sarà entrato nel corpo di una persona su trenta. In condizioni normali sarebbe folle non disporre un lockdown totale ma di normale, qui, è rimasto ben poco, tanto da far sembrare la pandemia un’emergenza secondaria, gestibile con l’attenzione personale e blande misure. Non c’è più spazio per ulteriori ansie, che rimbalzano sul muro della disperazione.
Alla fine dello scorso luglio la Polizia libanese, nell’elencare l’aumento dei reati nel corso del 2020, riferiva di una nuova tipologia di furto: quello di pannolini, latte in polvere e medicine. Erano già tempi drammatici, con la pandemia in ascesa, una disoccupazione giovanile ben oltre il 40%, un tasso di povertà del 55% (28% un anno prima), un sistema bancario in decomposizione, una valuta a picco e un’inflazione annuale del 120%, che aveva conferito al Libano l’infausto primato di primo paese mediorientale a fare i conti con l’iperinflazione.
Le dimissioni di Hariri e la mediazione francese
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