La strage di 21 egiziani copti, sgozzati sulla spiaggia di Sirte, è servita come pretesto ad Abdel Fattah al-Sisi per intervenire, insieme all’aviazione libica filo-Haftar, in Libia. È vero che le immagini del sangue dei 21 uomini egiziani sgozzati che macchia le acque del Mediterraneo è terribile ma la reazione di al-Sisi quanto meno delinea la realizzazione di un sogno che l’ex generale covava dal giorno del colpo di stato militare del 3 luglio 2013: l’esportazione del modello egiziano di lotta al terrorismo nel paese vicino.

Questo grave episodio, perpetrato dai jihadisti che hanno parzialmente conquistato Sirte e annunciato dagli altoparlanti della loro macchina mediatica di essere «a sud di Roma», è bastato perché la guerra per procura che va avanti in Libia dal giorno in cui il golpista Haftar ha tentato di prendere Tripoli, nel giugno scorso, senza mai riuscirci, venisse annunciata al grande pubblico. Egitto ed Emirati arabi uniti da mesi forniscono le basi per raid, concedono piloti, aerei e rifornimento in volo per attacchi mirati in Libia. E lo fanno sempre al fianco dei militari, guidati dal premier Abdullah al-Thinni, e dei miliziani di Zintan, contro gli islamisti, che siano i moderati di Tripoli o i radicali di Derna, Sidra e Bengasi.
La chiusura dell’ambasciata italiana
L’ambasciata italiana a Tripoli è stata chiusa la scorsa domenica e decine di italiani sono rientrati con un C-130 dell’Aereonautica. Il premier Matteo Renzi dopo un iniziale disco verde all’attacco sotto l’egida delle Nazioni Unite contro la Libia ha corretto ieri il tiro calmando gli animi guerrafondai dei politici italiani con un tranchant: «Non è tempo di interventi militari». E prima di lui è stato Romano Prodi, che aveva avvertito dei rischi di un altro attacco, a frenare gli impeti per un possibile intervento. Per un motivo ben preciso: questa guerra non sarebbe un’azione per facilitare la fine del conflitto tra militari e islamisti in Libia, o per fermare i jihadisti, ma sarebbe un intervento pro-Sisi (più di quanto non sia pro-Assad la coalizione anti-Isis in Siria, dove un cambiamento di regime non ci è mai stato). Il che ha una precisa conseguenza per l’Italia: dopo aver abdicato ai propri interessi nazionali a favore di Francia e Gran Bretagna con gli attacchi della Nato del 2011, un intervento al fianco di al-Sisi in Libia darebbe il via libera all’«invasione» egiziana del paese e il colpo di grazia a qualsiasi «privilegio» italiano in tema di contratti petroliferi, controllo dei flussi migratori e gestione dei gruppi jihadisti.
Petrolio, business sulle spalle dei migranti e l’avanzata dei jihadisti sono i tre motivi per cui l’anarchia libica inizia a fare paura all’Italia. E se i jihadisti dello Stato islamico (Isis) hanno preso il controllo di Sirte, 450 chilometri da Tripoli, con la chiusura delle principali sedi diplomatiche nel paese, in seguito ai gravi attentati al consolato Usa di Bengasi nel 2012 (dove perse la vita l’ambasciatore Chris Stevens) e alle rappresentanze diplomatiche francesi, l’ambasciata italiana era rimasta il principale bersaglio dei jihadisti sulla via verso Tripoli.
Il sostegno della comunità internazionale
L’attacco egiziano, che solo a Derna avrebbe provocato almeno sette morti civili e 40 vittime tra i jihadisti, è stato subito applaudito dalla Russia di Putin che ha visitato il Cairo proprio nei giorni scorsi promettendo di fornire all’Egitto tecnologia nucleare e ha fatto sapere che Mosca «è pronta a cooperare contro tutti gli aspetti della minaccia terroristica». Dal canto suo, il presidente francese François Hollande, che ha sentito al-Sisi, ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Già domani, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shukry potrebbe incontrare Kerry e Mogherini a Washington.
In verità motivi di preoccupazione per la presa di Sirte ce ne sono e come. Coinvolgono principalmente gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, tra cui la francese Total, che controlla l’area di al-Mabruk, pochi chilometri a sud di Sirte. Proprio da qui, il 4 febbraio scorso è iniziata l’avanzata inesorabile dei guerriglieri che si rifanno alla galassia dell’Isis. Per settimane è infuriata qui la battaglia fra i miliziani della Petroleum Protection Guard di Ibrahim Jadran e i miliziani Scudo di Misurata. Ora nelle mani dei jihadisti non c’è solo il porto ma il centro urbano, inclusa radio, televisione di Stato, le emittenti private Free voice e Radio Miksashi (dalle quali sono stati trasmessi discorsi di al-Baghdadi) e uffici dell’amministrazione locale. Uomini armati avrebbero costretto gli impiegati a lasciare il palazzo del governo.
La strage di 21 egiziani copti, sgozzati sulla spiaggia di Sirte, è servita come pretesto ad Abdel Fattah al-Sisi per intervenire, insieme all’aviazione libica filo-Haftar, in Libia. È vero che le immagini del sangue dei 21 uomini egiziani sgozzati che macchia le acque del Mediterraneo è terribile ma la reazione di al-Sisi quanto meno delinea la realizzazione di un sogno che l’ex generale covava dal giorno del colpo di stato militare del 3 luglio 2013: l’esportazione del modello egiziano di lotta al terrorismo nel paese vicino.