
Non possiamo permetterci uno Stato fallito sulle coste del Mediterraneo.
“Scegli e vincerai!”, scrive Sun Tzu, l’insuperato maestro cinese dell’arte della guerra. Tuttavia, a volte scegliere è difficile.
E’ il caso della Libia, Stato fallito, attualmente in preda ai contrastanti egoismi di decine di milizie armate, campo di azione di filiere della criminalità organizzata, che vedono costantemente crescere tanto il livello del giro d’affari quanto la sicurezza di una completa immunità.
Base di partenza di una emigrazione africana che diviene giorno dopo giorno più incontrollabile, terreno di confronto armato fra le due maggiori tendenze dell’estremismo sunnita attuale, oggetto di impossibile desiderio da un lato dell’Egitto, che vagheggia la Cirenaica ed i suoi campi petroliferi, dall’altro della Tunisia, che guarda alla Tripolitania. Perenne fonte di cupidigia per tutti coloro che pensano – anche in Europa – di potersi un giorno ritagliare una fetta migliore nello sfruttamento delle risorse petrolifere del Paese.
Un panorama articolato di caos, di incertezze, di pericoli, di rischi mortali che fanno sì che nessuno si impegni veramente a fondo per aiutare la Libia a uscire dalla sua spirale di anarchia, di violenza e di morte.
I pochi interventi esterni che si registrano sono, a ben guardare, soltanto atti compiuti da paesi che, attraverso l’intervento, ricercano il soddisfacimento di propri interessi particolari, non un reale tentativo di far progredire la Libia verso un futuro più sereno.
È in questa ottica egoistica che possono essere interpretati sia il sostegno fornito dall’Arabia Saudita e da altri stati della Penisola arabica ad alcune delle parti in lotta, sia l’appoggio dato ad altri contendenti dalla Fratellanza islamica. Per non parlare poi dei bombardamenti, attribuiti da alcuni a complicità egiziano-emiratine, o, da altri, a interessati pourparler in corso da tempo fra l’Algeria e la Francia.
Oltre a questo, più o meno il nulla. Un nulla riempito solo apparentemente, a livello internazionale, da quelle iniziative diplomatiche che, tutti sanno, non approderanno mai a niente ma che rimangono ottime per darsi buona coscienza, nonché per fronteggiare eventuali accuse o reazioni dell’opinione pubblica. Due esempi? Il primo è la creazione di uno Special Envoy for Libya da parte del Segretario generale delle Nazioni Unite, il secondo la riesumazione del vecchio gruppo dei “5+5” ad opera della Spagna.
Come corollario poi, un assordante silenzio mediatico per cui se volete sapere qualcosa su quanto succede nel Paese, che per noi italiani, costituisce attualmente il maggiore dei rischi potenziali, dovete andare a cercarvelo sull’Osservatore Romano, l’organo del Vaticano, unico protagonista della carta stampata non coinvolto in questa politica dello struzzo.
Ma è poi in realtà così difficile, tanto lacerante, lo scegliere? Lo è certamente, considerato che, allorché si tenta di ridurre il problema alla sua reale essenza, ci si accorge che quelle che si confrontano in questo momento sul terreno sono, oltre a una molteplicità di altri protagonisti, due principali coalizioni di forze entrambe così complesse e piene di ombre da essere difficilmente accettabili. Sul piano politico, esse esprimono in questo momento due governi e due parlamenti che insistono nell’accusarsi reciprocamente d’illegittimità, malgrado il fatto che nessuno di essi si presenti con carte del tutto in regola.
Sul piano militare, un delicato e instabile equilibrio di forze, pagato carissimo in termini di quotidiano, reciproco, sanguinoso logoramento. E, soprattutto, nel tentativo di aver ragione sull’altra, ognuna delle parti finisce con l’accettare nelle proprie fila alleati difficilmente presentabili.
Cosa fare allora? Orientarsi tra le due coalizioni emergenti verso Dignità, in un certo senso la più rassicurante, nonostante il fatto che essa inglobi buona parte dei revanscisti gheddafiani e sia chiaramente sostenuta dalle baionette egiziane? Oppure scegliere Alba, maggiormente permeata di estremismo, ma, forse più dell’altra, espressione della volontà e dei sentimenti della massa libica?
Soluzioni alternative in concreto, almeno per ora, non se ne vedono, anche perché nessuno ha, fino ad ora, tentato con autorevolezza di mettere attorno a un tavolo anche i rappresentanti delle più influenti tribù e della numerosa diaspora libica. Certo una forte “società civile” libica non è peraltro mai esistita.
Alla resa dei conti, i laici si sono rivelati una forza di dimensioni ridotte persino in Egitto, paese che in questo settore è anni luce avanti alla Libia. E se non ci sono al Cairo, perché mai dovrebbero esistere a Tripoli e a Bengasi? I tradizionali riferimenti tribali del Paese sono stati in molta parte bruciati nella fornace rivoluzionaria e, come dimostrano esperienze maturate altrove, si tratta di un processo che purtroppo è difficilmente reversibile.
Leader carismatici e dal pedigree impeccabile non s’intravedono all’orizzonte, né s’intravede l’equivalente locale di quei “talebani moderati” che ormai da un decennio, novello Diogene, l’Occidente ricerca invano in Afghanistan.
In casi del genere rimane un’unica soluzione possibile, consistente nel pesare accuratamente le alternative contrapposte, scegliendo poi quella che, se non migliore, appare almeno “meno peggio” dell’altra. Facciamolo dunque, purché lo si faccia subito, prima che il sonno della ragione generi altri mostri.
Non possiamo permetterci uno Stato fallito sulle coste del Mediterraneo.