Due governi, due parlamenti, due primi ministri, due eserciti contrapposti. Questa oggi è la Libia, un Paese diviso in due. Lo si vede entrando dalla frontiera tunisina di Ras Jdir: qui comandano i berberi, alleati della potente città di Misurata e delle milizie ad essa legate.

La bandiera Amazigh, insieme a quella nazionale, svetta sul posto di confine. Tutta la linea costiera fino a Tripoli è controllata dalle milizie di Fajr Libya. I combattimenti contro le milizie di Zintan, alleate a Tobruk, sono poco distanti, a circa una ventina di chilometri da al Ajailat e a Kikla, tra Gharyan e Yefren.
A sud, nel Fezzan, Tebu e Tuareg, i primi con Haftar, i secondi alleati con Misurata, combattono per il controllo dell’area, zona sensibile al confine tra Tunisia e Algeria e poco distante dal secondo più grande giacimento di petrolio del Paese (300mila barili al giorno).
Da una parte troviamo il generale ribelle Khalifa Haftar, alleato del separatista Ibrahim al-Jadran, insieme alle potenti milizie di Zintan in Tripolitania e tribù rimaste fedeli fino all’ultimo al clan Gheddafi, come i Warshafanna (ma anche con centri della resistenza nella guerra civile del 2011 come Tajoura). Nel Fezzan, l’etnia dei Toubu. La coalizione si chiama “Operazione Dignità” (Karama).
Dall’altra parte troviamo la città di Misurata che ha raccolto intorno a sé la minoranza berbera (Amazigh), i gruppi legati alla Fratellanza Islamica, diversi movimenti jihadisti in Cirenaica e uno dei gruppi più radicali del Paese, Ansar al Sharia. Al sud i suoi principali alleati sono i Tuareg. La coalizione si chiama Fajr, ovvero “Alba”.
Nel luglio 2014 la coalizione islamista scatena l’offensiva ‘Operazione Alba libica’ su Tripoli. L’aeroporto della capitale e altre zone chiave, da sempre sotto il controllo delle milizie di Zintan, vengono una ad una conquistate. Sembra incredibile, ma ci sono oggi più danni a infrastrutture abitazioni che durante la guerra del 2011. La strada dell’aeroporto è un campo di battaglia. Dello stesso scalo internazionale, oggi non rimangono che lamiere contorte dal fuoco e decine di aerei di linea distrutti sulle piste. La torre di controllo, colpita più volte, è inutilizzabile.
Una guerra che a poco a che vedere con laicismo, islamismo, nazionalismo o federalismo. I pozzi petroliferi e le materie prime sono l’oggetto del contendere.
Nel 2010 il reddito derivante dal petrolio era di 47 miliardi di dollari. Tra il 2011 e il 2012 è salito circa 60 miliardi di dollari. A causa dell’instabilità politica, nel 2013 le entrate sono calate nuovamente a 40miliardi e nel 2014 a 15 miliardi. Lo stato ha avuto un deficit di circa 18.6 miliardi di dollari nel 2014, cifra quasi raddoppiata rispetto all’anno precedente. Quest’anno la produzione è ai minimi termini con circa 356mila barili giornalieri, la metà dei quali va per il fabbisogno interno.
Guerra anche per controllare la Banca Centrale, che continua a mantenere equidistanza tra le parti in conflitto e che attualmente ha un presidente, Sadik el-Kaber, che risiede a Malta per motivi di sicurezza. Guerra per il controllo dei confini, soprattutto a sud e sud-est, crocevia di traffici di droga, esseri umani e armi. In tutto questo si inserisce la proliferazione in Cirenaica e, dopo l’attentato all’hotel Corinthia anche in Tripolitania, di gruppi radicali non controllabili e affiliatisi allo Stato Islamico.
Un Paese, la Libia, a un passo dall’implosione.
Due governi, due parlamenti, due primi ministri, due eserciti contrapposti. Questa oggi è la Libia, un Paese diviso in due. Lo si vede entrando dalla frontiera tunisina di Ras Jdir: qui comandano i berberi, alleati della potente città di Misurata e delle milizie ad essa legate.