Il piccolo Stato baltico non demorde contro Mosca e Pechino, i rivali di Ue e Nato; anzi, sprona l’intervento di una Ue più matura e confida nella comunità transatlantica
Cosa succede quando un Paese di poco meno di 3 milioni di abitanti − circa la popolazione di Napoli − decide di sfidare due potenze che si atteggiano a colossi neo-imperiali? La piccola Lituania affacciata sul Mar Baltico si è trovata nell’occhio del ciclone geopolitico tra la Russia, lo scomodo vicino con cui condivide 274 chilometri di frontiera, e la lontana Cina, oltre 6.500 chilometri più a est. Se il muro contro muro con la prima non è una novità, con la seconda ha non solo deteriorato le relazioni diplomatiche ma anche interrotto quelle commerciali.
È la contesa di Davide contro Golia, solo che in questa storia i giganti sono ben due, e si dà il caso siano pure i “rivali sistemici” di Nato e Ue. Gradualmente, lungo tutto l’arco dello scorso anno, la Lituania è diventata l’avamposto d’Europa contro la loro assertività. Tutto è cominciato con Mosca (e il suo “proxy” Aleksandr Lukashenko, l’autocrate della Bielorussia) e continuato con Pechino ma, come effetto immediato, ha avuto quello di inchiodare l’Unione europea alle sue responsabilità: vuole (oppure no) una politica estera unitaria del blocco? E, soprattutto, una strategia che sia interprete dei valori alla base del progetto Ue?
Dopo le elezioni dell’autunno 2020, il programma di Governo della coalizione di centrodestra capeggiata dalla premier Ingrida Šimonytė l’ha pure messo nero su bianco: i partiti si impegnano “a contrastare attivamente ogni violazione dei diritti umani e della democrazia e a difendere chi è in lotta per la libertà in ogni angolo del mondo, dalla Bielorussia a Taiwan”. Il filo rosso che unisce le due contese regionali è presto avvolto.
Tra Russia e Bielorussia
Cominciamo dalla prima. Il sollevamento dei bielorussi contro i brogli dell’estate 2020 e, quindi, le repressioni, le incarcerazioni illegittime e le sentenze politicizzate dell’establishment di Minsk lasciano tutt’altro che indifferenti la Lituania e gli altri Paesi della regione. Da Tallinn in giù, i baltici vi rivedono la loro stessa lotta per la libertà combattuta trent’anni fa, quando riottennero l’indipendenza al termine dell’occupazione sovietica iniziata durante la Seconda Guerra mondiale. Per questo la Lituania non solo ha da subito dato asilo agli oppositori di Lukashenko, ma è anche diventata la sede del Governo in esilio scelto dalle urne e dalle piazze e guidato da Sviatlana Tsikhanouskaya.
Insomma, la Resistenza bielorussa ha preso casa a Vilnius, mentre i lituani si sono dimostrati i più risoluti nel rifiutare una normalizzazione delle relazioni “con l’aggressore di Mosca”, imputando oltretutto al monopolista di Stato Gazprom il mancato aumento delle forniture di gas al continente che contribuisce a far schizzare i prezzi dell’energia alle stelle. Anzi, sperano di poter rivendicare per sé la prossima Segreteria Generale della Nato, per cui avrebbero la forte quanto divisiva candidatura dell’ex Presidente della Repubblica Dalia Grybauskaitė.
E fin qui è il racconto di un insolito quanto deciso protagonismo regionale del piccolo Stato baltico, oltretutto di fronte alle proteste nella vicinissima Bielorussia e a una Russia che è ineluttabile e ingombrante protagonista di ogni discussione nello spazio post-sovietico. Se non fosse che l’escalation è stata seguita da un braccio di ferro ancora più serrato, che la Lituania ha ingaggiato con la Cina.
Le tensioni con la Cina
Anche in questo caso all’origine c’è una scelta di campo: stare (più o meno) con Taiwan, l’isola che per Pechino è un territorio indipendentista. Chi la riconosce viola la “One China Policy”, è l’affondo del Dragone. Non che si tratti di una fronda affollata: in avvio di 2022, i Paesi che al mondo riconoscono la Repubblica di Cina con capitale Taipei sono appena 13; in Europa c’è solo la Santa Sede, mentre negli ultimi anni il consenso si è andato assottigliando soprattutto nell’America centrale, con il passo indietro di Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua. La Lituania, per intenderci, non hai parlato di riconoscimento diplomatico di Taiwan (non lo fa nessuno fra gli Stati Ue), ma si è mossa con i fatti autorizzando l’apertura a Vilnius di un ufficio di rappresentanza: i locali al numero 16b di Jasinskio gatvė sono diventati così l’epicentro di uno scontro a muso duro con la Cina, che in estate, per tutta risposta, ha richiamato l’ambasciatore in Lituania e dichiarato persona non grata la titolare della sede della repubblica baltica a Pechino. È l’avvio di un domino che innescherà la contesa diplomatica più sottostimata del 2021, ma destinata a espandersi e avere effetti nel nuovo anno.
“Un topo, o forse giusto una mosca, sotto la zampa di un elefante intenzionato a combattere”: il Global Times, quotidiano del Partito comunista cinese, non ha usato mezzi termini per descrivere l’iniziativa baltica e l’intensità della reazione del Dragone. I dirigenti cinesi mettono quindi pressione sul corpo diplomatico lituano rimasto nel Paese, ne vogliono riesaminare le carte d’identità speciali, riducono il rango della sede; un accerchiamento cui Vilnius risponde, poco prima di Natale, trasferendo tutte le operazioni da remoto. Nel frattempo era intervenuta la tagliola commerciale, con un embargo in piena regola e la cancellazione della repubblica baltica dai registri doganali della Cina: stop, in buona sostanza, ai traffici in entrata e in uscita. La ritorsione non si fa sentire subito; Pechino, del resto, è solo il 22esimo mercato per l’export lituano con appena l’1% del mercato, e valori non dissimili anche per l’import.
E l’Unione europea?
Nei giorni di maggiore tensione, la questione aleggia nei corridoi del vertice dei leader del Consiglio europeo, senza finire tuttavia mai al centro della discussione. Qualcosa potrebbe cambiare con l’inizio del 2022. Un dato da tenere d’occhio, come spesso accade quando sono in ballo le catene del valore in Europa, è la postura della Germania, che in questo caso è anche il primo partner della Cina. L’avvertimento della Confindustria di Berlino è semplice: “Le misure adottate contro la Lituania sono di fatto un boicottaggio commerciale che ha un impatto sull’intera Ue”. E sulla componentistica tedesca che, con il colosso dell’auto Continental, ha negli ultimi anni delocalizzato fasi della produzione proprio nel Baltico: una crisi da aggiungere alla strozzatura delle forniture globali di cui il settore non ha proprio bisogno.
Non che Bruxelles sia rimasta con le mani in mano: a metà dicembre la Commissione aveva infatti presentato la proposta legislativa di istituzione di un nuovo meccanismo di rappresaglia contro la coercizione economica, con cui dotare l’Unione di nuovi strumenti sanzionatori in risposta alle restrizioni agli scambi per fini politici. Un’operazione interessante, perché l’esecutivo Ue ha sfruttato la leva del contrasto strategico per ampliare il catalogo delle ipotesi in cui il Consiglio può decidere a maggioranza (come in materia commerciale) e senza seguire la gravosa unanimità propria invece delle deliberazioni di politica estera.
Da Vilnius, insomma, arriva anche la spinta per una più matura Unione geopolitica. L’unico modo per dialogare da pari con Pechino è un format 27+1, ha ribadito di recente il Ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis. Già a maggio dello scorso anno, infatti, la Repubblica baltica aveva abbandonato il Forum 17+1, la piattaforma creata dai cinesi per sviluppare la cooperazione con i Paesi dell’Europa centro-orientale e dei Balcani: un altro sentiero per gli investimenti della Nuova Via della Seta, che ha messo occhi e mani sui progetti infrastrutturali dell’ampia area. I lituani hanno provato a far saltare il tavolo, esprimendo la necessità di un approccio coordinato europeo all’interventismo cinese. Anche perché, se Vilnius continua a sfidare a viso aperto Mosca e Pechino, dalla sua dice di fare affidamento sulla carta di una comunità transatlantica pronta a non lasciarla sola. Ma forse crede nell’unità di intenti del summit delle democrazie persino più del presidente Joe Biden.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Cosa succede quando un Paese di poco meno di 3 milioni di abitanti − circa la popolazione di Napoli − decide di sfidare due potenze che si atteggiano a colossi neo-imperiali? La piccola Lituania affacciata sul Mar Baltico si è trovata nell’occhio del ciclone geopolitico tra la Russia, lo scomodo vicino con cui condivide 274 chilometri di frontiera, e la lontana Cina, oltre 6.500 chilometri più a est. Se il muro contro muro con la prima non è una novità, con la seconda ha non solo deteriorato le relazioni diplomatiche ma anche interrotto quelle commerciali.