Mehbooba Mufti Sayeed, leader del People’s Democratic Party, e prima donna a ricoprire l’incarico di Chief Minister dello stato indiano Jammu and Kashmir, è stata oggetto di accese critiche per via di una sua recente affermazione.
Riguardo al progetto di rimpatrio dei Pandit, infatti, avrebbe dichiarato:
«Da adesso, non possiamo farli rientrare mettendoli come piccioni in mezzo ai gatti…bisogna essere molto chiari su questo».
L’infelice metafora, presa in prestito dal mondo animale, tocca uno degli episodi più controversi della storia recente kashmiri.
Ebbene, chi sono i Pandit?
Nel subcontinente indiano tale termine indica il titolo onorifico riservato alle caste più alte dell’Induismo. Nella valle, invece, è da tempo ormai che viene utilizzato per indicare tutti i kashmiri di religione hindu, in virtù della loro condizione originaria di bramini.
L’esodo
Autunno 1989. Il Kashmir è da poco piombato in una feroce guerriglia tra l’esercito indiano e i ribelli musulmani. Diversi Pandit vengono assassinati. Sono presi di mira da alcuni gruppi armati che sospettano possano essere informatori o sostenitori del governo centrale di Delhi. Le armi ormai sono dappertutto, e gli altoparlanti delle moschee pronunciano aspri slogan contro l’India. Il numero delle vittime sale ogni giorno di più e la popolazione è terrorizzata. E’ in quest’atmosfera che, all’improvviso, i Pandit decidono di fuggire dalla valle. Dopo solo due mesi l’esodo si è già concluso: 100.000 persone hanno abbandonato la propria terra d’origine.
Il primo inverno della guerriglia si chiude, così, lasciando un vuoto incolmabile nella società kashmiri.
Dopo quasi trent’anni, il motivo della fuga è ancora ostaggio della diatriba tra i diversi schieramenti. Secondo molti politici indiani e alcune organizzazioni della destra induista, i Pandit non avevano altra scelta di fronte al rischio di una pulizia etnica. La maggioranza dei musulmani kashmiri vi dirà, invece, che l’esodo è stato architettato da Jagmohan – governatore inviato da Delhi – che voleva isolare l’irrequieta popolazione musulmana per poi sterminarla.
Il rimpatrio
Malgrado sia da anni strumentalizzata dai politici locali, la vicenda è tornata prepotentemente alla ribalta lo scorso anno con l’insediamento della problematica coalizione governativa tra PDP e il Bharatiya Janata Party – partito nazionalista hindu, al governo in India con il premier Narendra Modi – per la prima volta parte dell’assemblea regionale in Kashmir. Dalle dichiarazioni ambigue e contradittorie dei membri, sembrava che il programma di rimpatrio prevedesse la costruzione ad hoc di distretti riservati ai Pandit.
I leader separatisti kashmiri, fin da subito, si erano dichiarati fermamente contrari, sospettando che dietro la proposta si nascondesse un tentativo di alterazione demografica dello stato: i nuovi insediamenti-ghetto, avrebbero costituito una pericolosa imitazione delle colonie israeliane in Palestina e una divisione della comunità secondo linee confessionali. Piuttosto, la popolazione musulmana era pronta a riabbracciare i loro fratelli, accogliendoli nelle loro abitazioni abbandonate durante anni ’90.
Tuttavia, tale posizione sconta qualche problema. Non solo molte case sono state convertite in campi militari o bunker, ma, oltretutto, una buona parte è stata venduta a prezzi stracciati dai Pandit stessi appena prima della fuga.
Inoltre la posizione della comunità diasporica rispetto alla vicenda appare tutt’altro che omogenea e chiara. Se il ritorno infatti sembra essere una soluzione auspicata da molti di coloro che ancora oggi si trovano nei campi profughi di Jammu o Delhi, pochi tra questi, però, sono favorevoli ad un rimpatrio all’interno dei nuovi insediamenti.
C’è poi chi si è costruito una vita altrove, trovando un buon impiego o avviando un’attività commerciale, e non ha alcuna intenzione di tornare in una regione militarizzata e politicamente instabile.
Le nuove generazioni
È di cruciale importanza il ruolo di coloro che sono nati durante gli anni ’90 e non hanno mai vissuto in prima persona l’armoniosa convivenza religiosa del passato. Tra i giovani musulmani di Srinagar oggi l’induismo è sempre più associato all’India, in quanto entità statale, la cui unica declinazione locale è quella ostile dei militari posti a difesa dei templi hindu. Per quanto riguarda i Pandit nati e cresciuti fuori dalla valle, la loro terra d’origine rappresenta sempre di più un luogo linguisticamente e culturalmente alieno.
Comincia a farsi largo l’impressione che il rimpatrio sia una sfida da risolvere al più presto, prima che le prossime generazioni perdano i legami con il Kashmir o anche solo la memoria di quella società dove l’appartenenza linguistica e regionale aveva sempre messo in secondo piano quella confessionale. Spesso mi è stato raccontato come prima degli anni ’90 fosse addirittura un’usanza consolidata celebrare le festività religiose insieme.
Il Kashmir, infatti, ha sempre rappresentato un esempio di società secolare e tollerante all’interno dell’India postcoloniale, dilaniata dalle cicatrici della Partition.
Ecco spiegato come mai la sgradevole dichiarazione della Mufti – nei giorni successivi ritrattata: «mi riferivo solo ai militanti armati» – abbia sollevato un polverone di accuse. La demonizzazione dei kashmiri musulmani e una narrativa vittima/carnefice non aiuta affatto la risoluzione di una questione già di per sé parecchio delicata.
Mehbooba Mufti Sayeed, leader del People’s Democratic Party, e prima donna a ricoprire l’incarico di Chief Minister dello stato indiano Jammu and Kashmir, è stata oggetto di accese critiche per via di una sua recente affermazione.
«Da adesso, non possiamo farli rientrare mettendoli come piccioni in mezzo ai gatti…bisogna essere molto chiari su questo».