Colpita in Mali nello stesso giorno del debutto bellico in Siria, la Francia dell’iperattivo Macron si affida in entrambi i teatri di guerra al multilateralismo, e più alla diplomazia che alle armi. Per non diventare “il gendarme del mondo”. Ma il rischio flop è alto
Da un lato c’è il fronte sahelo-sahariano, con il Mali impantanato in una crisi geopolitica che ha destabilizzato l’intera regione; dall’altro c’è quello mediorientale, caratterizzato dal conflitto siriano.
Nel mezzo Parigi, con il presidente Macron che si ritrova impegnato in due teatri di guerra radicalmente differenti tra loro. Per far fronte a questa situazione, il leader francese continua sulla sua linea centrata su un impegno multilaterale seguito da una intensa attività diplomatica.
Lo scorso sabato, mentre la stampa internazionale concentrava l’attenzione sull’attacco congiunto ai depositi di armi chimiche in Siria condotto da Parigi, Londra e Washington, nel nord del Mali si consumava l’ennesimo atto sanguinoso di una storia che sembra ormai aver abituato gli osservatori internazionali alle peggiori violenze.
Un gruppo di jihadisti ha assalito un campo militare delle Nazioni Unite nei pressi di Timbuctu, dove erano presenti militari dell’operazione francese Barkhane e i caschi blu della Minusma, la missione di pace dell’Onu impegnata sul terreno.
Il bilancio parla di un peacekeeper morto e di sette militari francesi feriti. «Almeno 15 terroristi sono stati neutralizzati» ha fatto sapere in un comunicato la Minusma, sottolineando che si è trattato di un «attacco senza precedenti» vista la quantità di mezzi e uomini impiegati.
L’episodio ha ricordato alla comunità internazionale e soprattutto alla Francia che l’insicurezza resta il principale problema nella regione. A sei anni dallo scoppio della crisi, il Mali rimane diviso in due parti, con l’area settentrionale infestata dai gruppi jihadisti legati ad Al Qaeda che, sebbene siano stati indeboliti dagli interventi militari francesi, continuano a destabilizzare il territorio.
A preoccupare maggiormente è l’escalation di violenza che si sta spostando verso il centro del Paese, generalmente considerato come una zona tranquilla. In genere, i principali obiettivi dei terroristi sono i soldati francesi e i caschi blu. La Minusma è attualmente la missione di pace delle Nazioni Unite che conta il maggior numero di perdite, con 160 militari caduti dal luglio del 2013, data in cui è stata lanciata. A questa situazione si aggiungono poi i problemi conseguenti a un esercito locale totalmente impreparato e alle tensioni tra diversi i gruppi etnici.
In questo contesto, Macron non intende arretrare. Grazie soprattutto alla sua posizione di ex potenza coloniale, nel Sahel la Francia svolge un ruolo di primo piano con l’operazione militare denominata Barkhane, dispiegata sul territorio nel 2014 al posto del contingente Serval.
Un enorme dispendio di uomini e mezzi che fino ad oggi è riuscito a contenere la minaccia terroristica senza tuttavia eliminarla definitivamente. Impiegando circa 4mila soldati, Barkhane ha un costo di 600 milioni di euro all’anno per le casse della Difesa francese. Uno sforzo immane per Parigi, che dopo essere rimasta bloccata nelle sabbie del Sahara per circa cinque anni, oggi vuole diminuire il suo impegno nella zona. «Non penso sia possibile risolvere il problema nel Mali in meno di dieci o quindici anni» diceva a febbraio il generale François Lecontre.
Per questo, dall’inizio del suo mandato Macron ha concentrato gli sforzi per sviluppare il G5 Sahel, l’iniziativa militare congiunta tra 5 Paesi dell’Africa occidentale (Burkina Faso, Niger, Mali, Mauritania e Ciad). Un progetto che darebbe una maggiore autonomia agli attori locali nel campo della sicurezza, anche se i 423 milioni di euro necessari per coprire i costi di funzionamento rappresentano un ostacolo al lancio dell’operazione.
Grazie all’intermediazione di Macron, la comunità internazionale ha raccolto fino ad oggi 414 milioni di euro. Una somma considerevole che dovrebbe permettere il lancio delle prime attività nei prossimi mesi.
L‘obiettivo principale è quello di perseguire la lotta al terrorismo islamista, una priorità evocata più volte anche nel teatro siriano. «In Siria conduciamo una guerra contro i gruppi terroristi islamici che hanno colpito il nostro Paese, nel quadro di una coalizione internazionale» ha affermato il presidente francese durante l’intervista andata in onda domenica sera su Bfm Tv. In altre parole, Parigi vuole affermare la sua presenza nei diversi scacchieri regionali in un quadro multilaterale che gli garantisca una presenza costante ma non invasiva.
Una scelta che assume diversi significati a seconda del contesto in cui viene attuata. Mentre in Siria il presidente francese è costretto ad inserirsi in un panorama dominato da attori locali e potenze occidentali esterne come Stati Uniti e Gran Bretagna, nella zona sahelo-sahariana la tendenza è quella di mantenere un controllo della situazione delegando ai Paesi africani con l’appoggio della comunità internazionale.
Domenica sera Macron è stato chiaro: la Francia non vuole essere il gendarme del mondo, ma questo non significa che è disposta a rimanere in disparte come già successo durante il mandato di François Hollande. Per questo, se necessario, Parigi è pronta ad entrare in azione per «restituire credibilità alla parola della comunità internazionale».
Seguendo questo principio, il presidente francese non vuole allontanarsi dalla via del dialogo diplomatico, lo strumento ideale per le sue ambizioni internazionali. «Fin dall’inizio la Francia ha un ruolo in questa comunità internazionale: continuare a parlare con tutti» ha detto il capo dell’Eliseo.
In Siria come per il Mali, Macron porta avanti un’intensa attività diplomatica, spesso volta a riempire i vuoti lasciati dagli altri attori. Il G5 Sahel ne è la prova evidente. Macron è intenzionato a ricoprire un ruolo da mediatore, e per riuscire ha bisogno di stringere rapporti con tutte le parti in gioco.
Tolti i panni da chef de guerre indossati sabato per comandare il suo primo intervento militare, Macron torna ad essere il presidente jupiterien, capace di dialogare con tutti cercando di mantenere una posizione super partes. Un esercizio da equilibrista che, in caso di caduta, potrebbe costare caro al presidente francese.
@DaniloCeccarell
Colpita in Mali nello stesso giorno del debutto bellico in Siria, la Francia dell’iperattivo Macron si affida in entrambi i teatri di guerra al multilateralismo, e più alla diplomazia che alle armi. Per non diventare “il gendarme del mondo”. Ma il rischio flop è alto