Il 20 giugno 2015 i ribelli tuareg della Coalizione dei movimenti dell’Azawad (CMA) riconoscevano l’accordo di pace in Mali, negoziato un mese prima ad Algeri dal governo e da alcuni gruppi armati attivi nel nord e più vicini all’esecutivo.
La firma della CMA completava l’intesa per riportare la stabilità nel Paese a lungo segnato dalle ribellioni dei tuareg e dalla presenza di gruppi jihadisti legati ad al Qaeda. Trascorso un anno dall’ultimazione dell’accordo di Algeri, è innegabile l’impegno delle parti nel rispetto dei patti, ma alcuni ritardi nell’applicazione hanno creato un diffuso malcontento, soprattutto tra i gruppi autonomisti.
Tuttavia, nonostante il cessate il fuoco sia stato effettivamente rispettato, la situazione rimane ancora molto tesa, a causa degli attentati dei gruppi jihadisti che dalla firma dell’intesa ad oggi, hanno causato più di 400 morti.
Inoltre, gli attacchi terroristici, prima circoscritti nella parte settentrionale del Mali, si sono espansi a sud, come dimostrano i ripetuti episodi di terrorismo che hanno preso di mira la capitale Bamako e altri attentati che hanno interessato le città di Savaré, Kolondiéba e Nara, nel centro del Paese.
Un serio ostacolo alla pace
Tutto ciò ha consolidato nei maliani la convinzione che l’incessante azione dei vari gruppi estremisti sia diventata un serio ostacolo alla pace. Tra le milizie attive nel Paese responsabili dell’escalation di attacchi degli ultimi mesi la più radicata è al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), il ramo nord africano della rete qaedista che sembrava aver perso posizioni e prestigio nel jihad regionale, ma di recente si è riaffermata instaurando nuove alleanze con i gruppi locali.
Tra le recenti affiliazioni ad AQIM spicca la sigla di al Morabito un, gruppo attivo in tutto il Sahara, nato nel 2013 dalla fusione del Movimento per l’unità e il jihad nell’Africa occidentale (MUJAO) e della Katiba al-Mulaththamin, guidata dal terrorista algerino Mokhtar Belmokhtar. Negli ultimi mesi, al Morabitoun ha rivendicato tre attacchi contro obiettivi di alto profilo in Mali, Burkina Faso e Costa D’Avorio.
Altro gruppo fondamentalista molto attivo in Mali è Ansar Dine, apparso sulla scena nel marzo del 2012 e guidato da Iyad Ag Ghali, uno dei principali capi della seconda rivolta tuareg consumata tra il 1990 e il 1995. Ansar Dine è tra le principali organizzazioni radicali islamiche che hanno preso parte alla guerra in Mali.
C’è un altro gruppo di dimensioni più ridotte affiliato ad Ansar Dine: il Fronte di liberazione di Macina (FLM), nato nell’omonima regione centro-meridionale e attivo soprattutto nel sud del Mali e lungo la frontiera con il Burkina Faso. Alla sua testa Amadou Koufa, che ha condotto numerose incursioni contro i militari maliani nell’intento della costituzione di uno Stato islamico.
A queste sigle, si aggiungono alcuni gruppi di ispirazione separatista, molto attivi nel corso della ribellione tuareg del 2012, come il Movimento nazionale di liberazione di Azawad (MNLA), che agisce nella coalizione del CMA.
Ci sono poi le milizie filo-governative songhai Ganda Izo, Ganda Koye Gatia, create dalle autorità del Mali per combattere i ribelli del CMA, che oggi costituiscono un ostacolo importante per il ritorno della pace nel nord del Paese.
Da questo quadro, appare evidente che il radicamento di formazioni estremiste nell’area si è trasformato in un rischio che va ben oltre il territorio nazionale e si estende ai Paesi confinanti, come dimostrano i numerosi e recenti arresti in territorio maliano di miliziani jihadisti coinvolti nell’attacco terroristico, che lo scorso 13 marzo ha colpito la località turistica ivoriana di Grand Bassam.
Una spirale di terrore che, come riportato in un articolo di Boubacar Sangaré, ha indotto giornalisti, politici e avvocati maliani a confrontarsi sull’opportunità di coinvolgere nel processo di pace il leader di Ansar Dine, Iyad Agh Ghali.
Un’apertura sulla quale ha posto il veto assoluto il primo ministro francese Manuel Valls, che influenzato dai ripetuti episodi di terrorismo che hanno colpito il suo Paese, ritiene improponibile la possibilità di instaurare trattative con i gruppi jihadisti.
La scorsa settimana, anche il primo ministro del Mali, Modibo Keita, ha espresso la sua contrarietà a impegnarsi in un dialogo con Ghali, spiegando che il suo governo non può trattare con chi sostiene il terrorismo.
La più pericolosa missione di peacekeeping degli ultimi anni
L’instabilità che scuote ancora il nord del Paese è anche confermata dalla decisione dell’ONU di inviare nuove truppe a supporto della MINUSMA, la missione multidimensionale integrata istituita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 2100 del 25 aprile 2013, per sostenere il processo politico di transizione e stabilizzare il Mali.
Dall’inizio dell’anno sono stati registrati nella regione di Kidal almeno una dozzina di attacchi nei confronti della MINUSMA, l’ultimo dei quali risale al 31 maggio, quando AQIM ha rivendicato un attacco a due siti Onu nel nord del Mali, in cui sono rimasti uccisi un peacekeeper cinese e tre civili uccisi.
Solo due giorni prima, nel corso di un’imboscata nella regione del Mopti, nel centro del Paese, avevano perso la vita cinque caschi blu di origine togolese. Mentre il 18 maggio, un’altra imboscata ad Aguelhok aveva provocato l’uccisione di cinque caschi blu ciadiani.
La MINUSMA dalla sua istituzione ha subito la perdita di 66 effettivi, morti in servizio a causa di attacchi da parte degli estremisti islamici. Un tributo di sangue che l’ha resa la più pericolosa missione di peacekeeping degli ultimi anni, con uno dei più alti tassi di mortalità nella storia delle Nazioni Unite.
@afrofocus
Il 20 giugno 2015 i ribelli tuareg della Coalizione dei movimenti dell’Azawad (CMA) riconoscevano l’accordo di pace in Mali, negoziato un mese prima ad Algeri dal governo e da alcuni gruppi armati attivi nel nord e più vicini all’esecutivo.
La firma della CMA completava l’intesa per riportare la stabilità nel Paese a lungo segnato dalle ribellioni dei tuareg e dalla presenza di gruppi jihadisti legati ad al Qaeda. Trascorso un anno dall’ultimazione dell’accordo di Algeri, è innegabile l’impegno delle parti nel rispetto dei patti, ma alcuni ritardi nell’applicazione hanno creato un diffuso malcontento, soprattutto tra i gruppi autonomisti.