Riflessioni sugli indiani che vanno su Marte, il giorno dopo. Rilassarsi, ritirare la bacchetta e la penna rossa ed empatizzare.

Ho seguito i momenti del lancio di Mangalyaan dalla diretta streaming di Ndtv, il canale all news generalmente più autorevole nel paese. La prima reazione alla notizia del lancio, ancora fuori dall’euforia generale, anche per me è stata la banalissima “un paese disastrato con una povertà indecente che spende soldi per andare a giocare agli astronauti…complimenti!”.
Poi però, anche a chilometri di distanza, quando la telecamera si fissa sul missile – si dice missile? – e parte il conto alla rovescia, nonostante il rapporto amore-odio che mi lega all’India e agli indiani la pelle d’oca m’è venuta lo stesso. È stato un momento storico e davanti alla Storia è il caso, non senza fatica, di lasciar perdere il cinismo e le constatazioni brillanti.
Sono i meccanismi della propaganda e del soft power, momenti in cui lo Stato, tramite la tecnologia, vuole rendere partecipi tutti gli indiani – dagli scienziati espatriati all’ultimo dei rikshawalla – del raggiungimento di un obiettivo sul quale nessuno, nella comunità internazionale, avrebbe scommesso un centesimo.
Gli indiani, coi loro power cut continui e una propensione naturale all’entropia, in grado di progettare, realizzare e spedire in orbita un satellite alla volta di Marte. In India! Dove impari a camminare con lo sguardo basso, che non sai mai cosa o chi potresti pestare; dove il primo gesto che impari, dopo il ciondolamento della testa, è sollevare i palmi verso il cielo e dire “kya karega?”, “che ci posso fare?”. Il fatalismo come filosofia di vita.
Invece si sta con gli occhi fissati sullo schermo a vedere le facce marmoree di tutti i tecnici nella sala di controllo, in silenzio religioso nell’attesa che i quaranta minuti che dividono il lancio dall’annuncio “Mission accomplished” passino senza intoppi. E quando il presentatore in tv alla fine lo dice, “Mission accomplished”, con quell’accento hinglish che fa sembrare tutto una presa in giro degli indiani di qualche stand-up comedian anglosassone di seconda generazione, si può provare a immedesimarsi nel “popolino” che ogni giorno arranca e la cui vita non cambierà di una virgola con questo satellite made in India in giro per lo spazio. Ma per una volta, e che cazzo!, ce l’abbiamo fatta. Stiamo andando su Marte.
Alla faccia degli americani che a poche ore dal lancio dichiaravano “Non credevamo fossero in grado di procedere al lancio in così poco tempo…se ci dovessero riuscire, sarebbe fantastico”.
Alla faccia dei pakistani, che ringhiano dall’altra parte del confine mentre noi nel giro di due anni mandiamo su un missile a gittata nucleare e un satellite.
Alla faccia dei cinesi, che fanno quelli che se la comandano sempre, che hanno provato a spedire un loro satellite su Marte e si è alzato da terra una decina di metri, e adesso li vogliamo vedere col naso in su a farsi rodere il fegato, nonostante i comunicati stampa di circostanza. Rosicare gente, rosicare!
La gente funziona così, si fomenta per interposta persona, col cricket come al cinema o davanti alla diretta tv della Mission to Mars, “dal Red Fort al Red Planet”. Per un giorno l’India, eterna seconda e superpotenza di carta, sempre commiserata, guarda tutti dall’alto al basso e si gode il panorama degli scettici e degli increduli.
E per un giorno la povertà, la corruzione, la fame e le ingiustizie si possono dimenticare.
Riflessioni sugli indiani che vanno su Marte, il giorno dopo. Rilassarsi, ritirare la bacchetta e la penna rossa ed empatizzare.