Per amore o per interesse? La scelta è sempre attuale.
Nei film, come in teatro da secoli, un matrimonio è spesso la felice conclusione di una storia d’amore travagliata e fitta di ostacoli, o il punto di partenza di un dramma, se l’estasi dei giorni felici degli sposini è una vetta da cui la coppia scende a velocità vertiginosa quando la festa è finita e ci si trova ad affrontare le brutture della vita quotidiana.

E se l’opzione di sposare la persona amata non esiste affatto? È un’ipotesi meno esplorata al cinema, ed è ciò che rende originale e interessante I Do, film indipendente di Glenn Gaylor, uscito nel 2013 negli Stati Uniti.
I Do, scritto dal cantante/attore britannico David W. Ross, che ne è anche protagonista, si apre a New York, con i due fratelli inglesi Jack e Peter Edwards (David W. Ross e Grant Bowler). Peter è sposato con l’americana Mya (Alicia Witt) e i due hanno una graziosa bimbetta, Tara (Jessica Tyler Brown).
La storia si mette in moto con la morte di Peter, per un incidente dopo una cena al ristorante. Proprio allora, il visto di Jack sta per scadere ed egli sarà costretto a lasciare gli USA nel momento in cui Mya e la nipotina hanno più bisogno di lui.
Un modo per restare a New York sarebbe sposare qualcuno che ha il passaporto americano, come suo fratello ha fatto prima di lui, e, lì per lì, quella sembra la soluzione perfetta, se non fosse per il piccolo dettaglio che Jack, assistente fotografo, in amore preferisce gli uomini.
Ma il richiamo del sangue è più forte. Per aiutare la famiglia, il giovanotto convince la sua amica lesbica, Ali (Jamie-Lynn Sigler), a stipulare con lui un contratto di matrimonio, cosa che dà origine a diverse situazioni comiche quando i due devono fingersi di fronte alle autorità americane una coppia solida e collaudata.
La sceneggiatura sottolinea che il finto matrimonio è, in sostanza, una pessima idea. E lo dimostra: arriva Mano (Maurice Compte), un attraente architetto ispano-americano che Jack incontra a una festa. Anche Mano è gay e s’invaghisce subito di Jack. Un interesse che il nostro vorrebbe corrispondere anche se la cosa ha un impatto sulla sua relazione (erroneamente definita), con Ali che si aspettava, a ragione, di passare almeno un poco del suo tempo insieme all’amico (e marito ufficiale).
Ciò che distingue I Do da altri film americani sul tema dei matrimoni gay – inclusa una lunga lista di documentari tra cui tragedie, come Bridegroom: A Love Story, Unequaled, e favole, come The Gay Marriage Thing – è che è ambientato a New York, uno stato dove il matrimonio gay esiste già.
Allora perché Jack non si limita a divorziare e sposare il simpatico e carino Mano chiedendo ad Ali di fare da damigella d’onore, così che tutti possano vivere felici e contenti? Perché, negli USA, l’immigrazione è regolata da leggi federali che, attualmente, non riconoscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Perciò, anche se sposasse l’uomo che ama, Jack verrebbe lo stesso espulso.
Che il film riesca a rendere così chiaro questo punto dimostra il talento di sceneggiatore di Ross. Il film rileva in modo palese l’esigenza di norme federali che riconoscano i matrimoni gay, ma I Do affronta il tema analizzandolo da un punto di vista intimo e personale, ed evidenziando questa necessità senza dare l’impressione di essere un film con motivazioni politiche.
Ognuno sarà pronto a identificarsi con chi vuole rimanere con la cognata e la nipotina dopo aver perso il proprio fratello, e quasi tutti condivideranno l’idea che si debba sposare il proprio beneamato, non una persona che ti può servire a fare quel che ritieni importante per la tua famiglia. In più, dando al personaggio di Ali sufficiente importanza, si dice che anche l’amicizia può essere messa in pericolo, quando si accetta di ricorrere a una misura così disperata come un matrimonio di convenienza.
Quello che i buoni film sanno fare meglio dei migliori documentari è presentare ogni momento chiave della storia che raccontano in modo da garantire che gli attori – e i dialoghi – filtrino il tema trattato attraverso la personalità e i sentimenti dei personaggi che interpretano. È questo che permette al pubblico, quale che sia la sua mentalità e provenienza, di mettersi per un paio d’ore nei panni di qualcun altro. Ed è proprio quello che I Do, un piccolo film indipendente americano, è riuscito a fare.
Per amore o per interesse? La scelta è sempre attuale.
Nei film, come in teatro da secoli, un matrimonio è spesso la felice conclusione di una storia d’amore travagliata e fitta di ostacoli, o il punto di partenza di un dramma, se l’estasi dei giorni felici degli sposini è una vetta da cui la coppia scende a velocità vertiginosa quando la festa è finita e ci si trova ad affrontare le brutture della vita quotidiana.