Il tentativo dei Tory ribelli di defenestrare May è andato male. Ma nulla è stato risolto, anzi. La Ue ha rifiutato la richiesta di riaprire il negoziato per rendere più accettabile il “backstop”. Il Brexit deal così rimane condannato alla sconfitta. E il Labour medita una mozione di sfiducia
Londra – Come era prevedibile, è andato male il nuovo viaggio della speranza di Theresa May a Bruxelles. Il premier ha chiesto giovedì al Consiglio europeo di fissare una data di scadenza al backstop – l’accordo che sarà in vigore tra la fine del periodo di transizione e il futuro accordo commerciale (se ci sarà) – nel tentativo di convincere i più riluttanti deputati conservatori e gli unionisti nordirlandesi ad appoggiare il suo Brexit deal. Niente da fare. Oltre a rassicurazioni scritte e chiarimenti semantici, l’Europa non andrà.
È un rifiuto forse letale per le residue speranze di Theresa May di strappare un sì alla Camera dei Comuni, perché l’opposizione del Dup al backstop – su questo la leader Arlene Foster e i lsuo vice Nigel Dodds sono stati espliciti – si sarebbe sciolta solo solo se la Ue fosse stata pronta ad inserire impegni legalmente vincolanti nel testo già chiuso. Così dopo essere sopravvissuta al tentativo dell’ala più euroscettica del suo partito di defenestrarla, per Theresa May la strada rimane tutta in salita.
L’esito della sfida – su 317 membri conservatori della Camera dei Comuni, 200 hanno confermato la fiducia nella May – è un risultato purgatoriale, come ha notato la cronista politica della Bbc Laura Kuessnberg.
La May ha vinto con 83 voti di differenza – non male, di questi tempi – ma sono 117 i suoi colleghi di partito che vogliono farla fuori. Un terzo del totale, più del doppio dei circa 60 accoliti dello European Research Group guidato da Jacob Rees-Moog che guida la fronda pro no deal.
È quasi certamente l’anticipazione del dissenso interno che finirà di affossare il suo accordo con l’Ue, se e quando sarà ripresentato per la ratifica ai Comuni.
Proprio per evitare una sconfitta di questa misura, lunedì 11 dicembre il governo britannico aveva preso la decisione controversa di rimandare il voto previsto per il 12. Questo aveva fatto precipitare la situazione, esacerbato gli animi e avviato la resa dei conti con la mozione di sfiducia interna. Una defenestrazione, la May lo aveva fatto lucidamente presente ai suoi, avrebbe complicato enormemente la strada già in salita della Brexit: un cambio di leader in corsa avrebbe richiesto settimane, e quindi la necessità di revocare l’art 50 o chiederne una estensione agli stati membri dell’Unione Europea. Il controllo del processo sarebbe finito al Parlamento, con il possibile esito di una Brexit annacquata o cancellata.
La May ha vinto la sfida e, come previsto dal regolamento di partito, non può più essere sfiduciata internamente per un anno. Ma per ottenere il voto ha fatto due potenziali passi falsi. Il primo è stato promettere, a malincuore, di non correre per le elezioni del 2022. Rinuncia che ha commosso i suoi simpatizzanti, che in questi anni difficilissimi hanno imparato a rispettarne la tenacia, ma ha infastidito i più cinici, consapevoli che le sue chances di restare al comando del partito per altri tre anni fossero comunque minime.
E poi ha assicurato di aver fatto significativi progressi nel dialogo con gli unionisti irlandesi del Dup, vera spina nel fianco, che nel frattempo flirtano con David Davis e Dominic Raab, ex ministri per Brexit entrambi dimessisi per dissenso sulla linea della premier e ora, scaldando i muscoli per succederle, elaborano piani alternativi alla backstop per risolvere il nodo del ritorno del confine fra le due Irlande. Ma dopo la chiusura di Bruxelles sarà difficile andare avanti.
Con i numeri aggiornati all’esito della mozione di fiducia – 117 dei suoi più quasi tutto il Labour più 35 nazionalisti scozzesi, 11 Lib-Dem e il no dei 10 parlamentari del DUP la May è lontanissima dalla maggioranza necessaria per far passare il suo accordo. Anche se ci riuscisse potrebbe non avere la maggioranza per i passaggi parlamentari successivi nella fase di recepimento nella legislazione britannica, durante la quale sono possibili emendamenti significativi.
La sua strategia ora è quel kick the can down the road, prendere tempo, che secondo molti osservatori ha caratterizzato negativamente il suo premierato. I falchi ora premono per ottenere il meaningful vote la prossima settimana: sperano di sfruttare l’abbrivio della rivolta, che pur fallendo ha indebolito la May, ma nella mattinata di giovedì il Ministro per i rapporti con il Parlamento Andrea Leadsom, sostenitrice della May, ha fornito ai Comuni una agenda per la prossima settimana che non prevede il voto prima della pausa di Natale, il 20 dicembre.
Una conferma della frattura profondissima fra esecutivo e parlamento che è già valsa al governo una inedita censura per oltraggio ai Comuni la scorsa settimana.
Ora c’è il rischio di una mozione di sfiducia al governo da parte del Labour di Jeremy Corbyn. Ma il segretario laburista sembra restio a rischiare una sconfitta che in questa fase è probabile: secondo il Fixed Term Act, per sfiduciare un governo in carica sono necessari i 2/3 dei parlamentari, cioè il voto dei Conservatori.
Dopo lo scontro sanguinoso di mercoledì non si può escludere al 100% che i falchi decidano di allearsi con il Labour per liberarsi della May e giocarsela alle elezioni, ma è politicamente molto improbabile che corrano il rischio. La sfida alla premier ha avuto, per ora, il risultato paradossale di amplificare le divisioni senza risolvere l’impasse.
@permorgana