Mentre gli occhi dell’Europa sono puntati su quanto accaduto nella serata di venerdì a Monaco, mentre cittadini sempre più smarriti, confusi, intimoriti seguono dirette televisive in cui la mancanza di informazioni costringe alla mera speculazione – è stato l’Isis, no sono stati i nazisti –, mentre si cerca di ricostruire il legame tra l’ennesimo lupo solitario e la rete del terrore mondiale, per poi accorgersi che non di questo si è trattato bensì dell’ennesimo caso di delirio individuale, contro il quale ben poco c’è da fare se non lasciare all’umana pietà la decisione di buonsenso di far calare il silenzio, l’Isis, quello vero, rivendica.
Rivendica, tramite la sua agenzia di news Amaq, un attentato, una strage, una carneficina: 80 morti, più di 200 feriti, a migliaia di chilometri di distanza da un’Europa in piena crisi esistenziale.
A Kabul, Afghanistan, tre terroristi suicidi che nascondevano cinture esplosive sotto burqa femminili si sono infiltrati in una manifestazione della comunità hazara, facendosi esplodere all’improvviso tra la folla che si era riunita per chiedere al governo di Ashraf Ghani di tornare sulla decisione di spostare l’ambizioso progetto di trasmissione dell’energia elettrica (TUTAP, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Afghanistan, Pakistan) dalla provincia centrale di Bamiyan, abitata prevalentemente da hazara, a un’altra zona del paese, a nord di Kabul oltre il passo Salang.
L’ultimo attacco di simili proporzioni contro gli sciiti afghani risale al dicembre 2011, nel giorno di Ashura, quando attacchi congiunti a Kabul e Mazar-i-Sharif rivendicati da Lashkar-e Jhangvi, il movimento dei talebani pakistani, causarono 74 vittime e più di 160 feriti.
Un attentato, quello di Kabul, che rientra a pieno nella strategia di strumentalizzazione delle identità religiose ai fini della destabilizzazione, portata avanti dall’Isis – e non solo – nella regione attraverso attacchi mirati alle comunità sciite e volti ad alimentare la violenza settaria. Non vi è nulla di atavico, di irrazionale: il terrorismo è utilizzo della violenza a fini politici.
Questo, infatti, non è odio cieco. Questa è una strategia calcolata e razionale, atta a destabilizzare gli stati target, dipingendo le classi di governo come incapaci di proteggere i propri cittadini.
Incapaci di proteggere i propri cittadini e dunque privati della legittimità, i già fragili stati targetdiventano gusci vuoti, stati senza nazione, esattamente come il sedicente Stato islamico, in una gara al ribasso fomentata da chi sa di non disporre di un progetto edificante, di un’idea sulla quale fondare la costruzione di un’opera ambiziosa quale è uno stato, e allora fa ricorso a un’ideologia nichilista, sfruttando l’ampio spazio di vuoto lasciato dagli altri soggetti politici della regione.
Una strategia che in Afghanistan trova terreno fertile non meno che in Iraq o in Siria.
Lo scorso novembre, un giorno prima degli attacchi di Beirut, due giorni prima di quelli di Parigi, migliaia di persone – hazara, tajiki, uzbeki, pashtun – erano scese in piazza a chiedere giustizia per l’uccisione di sette cittadini hazara, rapiti e poi decapitati dai guerriglieri dello Stato islamico; la marcia aveva raggiunto il palazzo presidenziale, al governo afghano era stato chiesto di fare qualcosa per fermare la nuova ondata di violenza – che si somma a quella “storica” – della quale il paese stava cadendo vittima. Una violenza che colpisce non le istituzioni bensì i civili, e tra i civili sceglie proprio i più indifesi, marginalizzati, come la comunità sciita. Una violenza di cui Isis non è di certo l’unico responsabile, ma che proprio di questo caos si alimenta.
Cosa c’entra questo con Monaco e con l’isteria collettiva che sta segnando l’Europa in questa strana estate?
“Babilonia brucia, l’ottava meraviglia è che siamo ancora vivi”, scriveva la poetessa palestinese Jehan Bseiso non più tardi di venti giorni fa, quando un attacco terroristico a Baghdad rivendicato dallo Stato islamico uccideva più di 300 sciiti iracheni.
Il giorno prima degli attentati di Parigi del novembre scorso, Beirut piangeva le 43 vittime, sciite, di Bourj el-Barajneh, per le quali nessun safety check di Facebook era stato attivato.
Eppure è lì che si consuma l’emergenza vera. Quanto di riflesso accade in Europa ci preoccupa, ci rattrista, ci atterrisce, ma non è la radice del fenomeno, non è qualche cosa su cui realmente possiamo intervenire, se non ampliando le reti di sostegno e vigilanza sociale per “stanare” laddove possibile i casi di disagio personale e avviando una seria collaborazione tra forze di polizia per sventare le azioni in cui vi è davvero il coinvolgimento di soggetti radicalizzatisi nei nostri paesi e affiliatisi realmente allo Stato islamico o ad altre organizzazioni.
Anche queste azioni risultano comunque azioni di difesa, che possono per l’appunto difenderci da eventuali attacchi ma che nulla possono sulle cause profonde.
Al contrario, il modo in cui si reagisce agli attacchi in Europa, che vi sia o non vi sia un legame con il terrorismo di matrice islamista, ha il pericoloso effetto di fare il gioco dell’Isis. Molto clamore, propaganda a costo zero nel caso in cui il lupo solitario non abbia alcun legame con l’organizzazione ma comunque questo gli venga attribuito anche in forma provvisoria e speculativa nelle primissime ore dall’accaduto.
The revolution will not be televised ma gli attacchi terroristici al venerdì sera sì. Un movimento post-moderno come Isis si alimenta anche del voyeurismo con cui certi organi di informazione scavano nelle vite del responsabile della strage e delle sue vittime, della facilità estrema con cui si parla di estremismo islamico e che in sempre maggiori strati della popolazione ha solo l’effetto di suscitare una paura verso una religione sconosciuta ma percepita come pericolosa; una paura che in ultima analisi fa il gioco di politici populisti in cerca di facili consensi per il proprio tornaconto personale.
In Europa si dibatte in questi mesi dell’utilità e dell’opportunità di “fare come Israele”. Certo una risposta europea condivisa è auspicabile, un maggiore dialogo e collaborazione sul fronte dell’intelligence anche, ma non possiamo pensare di risolvere il problema così. Questo è semmai un metterci una pezza, e non è il “metterci una pezza” ciò che chiediamo a una classe politica che è chiamata a operare in tempi così difficili. Non possiamo pensare che l’ossessione securitaria e paranoica sia il futuro, perlomeno non è questo ciò a cui dovremmo tendere. Società in cui lo stato di emergenza diventa la norma non sono quello per cui in tanti abbiamo creduto e continuiamo a credere nel progetto europeo, nei valori dell’Europa come “potenza civile”.
Quanto accade in Europa continuerà ad accadere se non si andrà alla radice del problema, se non si chiuderanno i rubinetti del terrore.
Se si vuole evitare che il gioco al massacro continui è necessario focalizzare tutta la propria attenzione sulle vere prime linee del caos, che sono i campi di battaglia siriano e iracheno, con i loro prolungamenti yemenita, afghano, pachistano, finanche bengalese.
Di fronte alla ricorsività della violenza la tendenza è all’abitudine più che all’indignazione, e allora si distoglie lo sguardo. Non dobbiamo distogliere lo sguardo, non dobbiamo “dare per persi” questi paesi perché nella narrativa che se ne fa in occidente si presume siano epicentri di violenza endemica da decenni, non dobbiamo pensare che la soluzione sia trincerarci nel nostro fortino. Semmai guardiamo di più a Kabul, a Baghdad, a Istanbul, a Beirut, a Damasco, per capire che è da lì che bisogna cominciare. Anzi ricominciare, ricominciare a costruire degli stati che siano entità politiche degne di questo nome, stabili perché inclusive, e non dei potentati personali dell’autocrate di turno che l’occidente appoggia con rinnovato cinismo perché economicamente utili o perché pilastri di una supposta stabilità. Sostenere processi endogeni, come si avrebbe potuto fare in Siria nei primissimi mesi della rivolta contro Assad, anziché lasciare che gli interessi contingenti degli attori regionali e dei paesi occidentali con più voce in capitolo guidassero l’orizzonte dell’azione, facendo della Siria un teatro di guerra per procura e creando le premesse per la militarizzazione della società, secondo un copione già visto in Iraq, o prima ancora in Afghanistan.
Si può scegliere di continuare con questa politica miope, si può continuare a corteggiare il caos, credendo di poterlo contenere o utilizzare a proprio piacimento, oppure si può prendere coscienza del fatto che le costruzioni fragili prima o poi si sgretolano, che il muro con cui si crede di arginare il caos è destinato a crollare, che quello che succede a Kabul, Damasco, Baghdad non rimane a Kabul, Damasco, Baghdad; che gli effetti di questa politica miope sono destinati a manifestarsi come un fulmine a ciel sereno, un tornado che nessuno aveva visto arrivare ma che in realtà era nell’aria da tempo, e che arriva all’improvviso a turbare un venerdì sera qualunque in una tranquilla città europea.
Articolo pubblicato su ispionline.it http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/media-e-terrorismo-se-i-morti-di-kabul-ci-riguardano-15543