Il 2016 per il Medio Oriente? Meglio non parlarne. Il 2017? Si parlerà molto di Medio Oriente. Battute a parte, quello che si chiude è stato davvero l’anno orribile della regione. Lo è stato, ovviamente, per le ricorrenti e sempre più crudeli crisi militari che tra i civili hanno mietuto vittime sempre più numerose: dallo Yemen all’Afghanistan, dalla Siria all’Iraq alla Libia, nessuna delle guerre recenti o in corso ha risolto alcunché ma, al contrario, ha allargato e approfondito i problemi, le crisi, i danni, i rancori. Se c’è un vincitore, nel Medio Oriente del 2016, questo è l’Isis. E lo si nota, per paradosso, proprio in quello che è forse il suo momento di maggiore difficoltà. Il compito della milizia jihadista era frammentare Siria e Iraq, diffondere ancor più il radicalismo, minacciare i musulmani con la violenza e agitare gli occidentali con il terrorismo. Obiettivi puntualmente raggiunti, anche se il territorio da essa occupato è oggi assai ridotto rispetto a due anni e mezzo fa.
Ma lo scoramento maggiore, a proposito del Medio Oriente, deriva dalla sensazione che quanto si produce oggi laggiù sia il frutto di una catena di decisioni sbagliate e interventi nefasti del passato, prossimo e remoto. Una catena che è impossibile riavvolgere e che ormai imprigiona le sorti di popoli e Paesi, a prescindere da motivazioni, ragioni e interessi.
Pensiamo per esempio al sostegno offerto, nella prima metà degli anni Ottanta, ai mujaheddin del popolo in Afghanistan. Erano, per l’epoca, jihadisti buoni perché sparavano all’aggressore sovietico. Ma pur sempre jihadisti, tant’è vero che Osama Bin Laden, l’uomo incaricato di distribuire tra i gruppi combattenti i denari in arrivo dal Golfo Persico, poi applicò gli stessi metodi e le stesse tecniche contro ben altri obiettivi. Metodi e tecniche, oltre che quattrini, che hanno segnato anche la nascita improvvisa e clamorosa dell’Isis.
Pensiamo all’Iraq, alla disastrosa guerra coloniale del duo Bush-Blair e alle sue conseguenze. Oltre a consegnare gli iracheni a un inferno paragonabile a quello di Saddam Hussein, il cambio di regime costruito con la violenza, dall’oligarchia sunnita a quella sciita, ha inasprito il contrasto tra le due grandi componenti del mondo islamico, che da rivali sono diventate nemiche. Le petro-monarchie del Golfo Persico si sono sentite minacciate, hanno speso somme incredibili per riarmarsi (nella classifica Sipri dei maggiori compratori di armi, l’Arabia Saudita figura al secondo posto e gli Emirati Arabi Uniti al quarto) e, fatalmente, hanno finito con l’usare gli ordigni che si erano procurate. Le bombe a grappolo, bandite da una Convenzione internazionale firmata nel 2008 a Dublino e nel tempo ratificata da 84 Stati (ma non Usa, Israele, Russia, Cina e India), sono ricomparse nella guerra in Yemen, dove protagonista è appunto l’Arabia Saudita.
Per non parlare della Libia, disintegrata dal duo Sarkozy-Cameron e per anni comodo varco per un flusso di migranti che, non trovando più ostacoli, ha deciso di intraprendere il lungo e pericoloso viaggio verso l’Europa.
In questi buchi neri si sono riversati, ansiosi di approfittare dell’occasione, altri grandi protagonisti. L’hezbollah del Libano, che ora manifesta qualche velleità di azione su scala regionale (Siria, Yemen…). L’Iran degli ayatollah come sempre sospesi tra riforma e conservazione. Infine e soprattutto la Russia di Vladimir Putin. Per quarant’anni (cioè dal 1972 in cui i “consiglieri” sovietici furono cacciati dall’Egitto di Sadat) priva di una politica mediorientale come di un qualunque margine d’azione (la base navale siriana di Tartus, nel Mediterraneo dominato dalla Nato, era ben poca cosa), Mosca ha trovato un vuoto di cui è stata pronta ad approfittare. Ieri costruendo una relazione privilegiata con l’Iran, dopo gli attentati del 2001 inserito dall’amministrazione Bush nella lista dei famosi “Stati canaglia”. Oggi con la Siria, schierandosi al fianco di Bashar al-Assad. Domani, forse, esercitando una qualche influenza in Libia attraverso il generale Haftar, classico esempio mediorientale di uomo per tutte le stagioni: prima soldato per Gheddafi, poi collaboratore della Cia, infine ribelle alla comunità internazionale e al Governo che essa riconosce.
Un viluppo che fa impressione. Anzi: spaventa. E che ci tormenterà anche nel 2017 ormai alle porte.
L’intervento russo in Siria ha cancellato un esito che ormai sembrava scritto: la caduta del regime di Bashar al-Assad. Dopo la riconquista di Aleppo sappiamo che anche nel prossimo futuro esisterà una Siria di Assad e che con essa superpotenze e potenze regionali dovranno comunque fare i conti. Il problema è che non sappiamo quale Siria sarà: il Paese delle vendette e delle epurazioni o quello di una ricomposizione politica e civile comunque da inventare? E non sappiamo nemmeno quanta Siria sarà. Difficile credere che il potere di Assad tornerà ad avere gli stessi confini di prima della guerra. Guerra che peraltro non è finita e, anzi, pare lontana da una conclusione. Così come tutt’altro che sconfitto è l’Isis, che ancora controlla zone vitali dell’Iraq e della Siria. L’anno nuovo, quindi, potrebbe replicare su questi fronti il grande dibattito del 2016: guerra aperta come in Siria, facendo soffrire i civili sotto le bombe; o guerra piena di ritegni come in Iraq, facendo soffrire i civili che restano più a lungo sotto il giogo dei jihadisti?
Dove non c’è la guerra, ci sono questioni quasi brutali da risolvere. Dove andrà la Turchia di Recep Erdogan dopo uno degli anni più intensi della sua storia? Nel 2016 Ankara ha vissuto l’impegno in Siria a fianco di jihadisti e ribelli, l’accordo con la Ue sui migranti, lo scontro con la Russia (cominciato nel novembre 2016 con l’abbattimento del caccia al confine siriano), il fallito golpe militare, il riappacificamento con la Russia, il disimpegno rispetto al fronte anti-Assad, l’eterna lotta contro i curdi, un’ondata di attentati senza precedenti. Erdogan è sempre al potere, forse più di prima. Ma per fare che, e con chi?
Da questo punto di vista il fronte nascente con Russia e Iran può servirgli da ancora di salvezza ma non per tutto e non per molto.
L’altro grande Paese che dovrà scegliersi una strada è l’Arabia Saudita. Per certi versi, re Salman sembra aver commesso gli stessi errori del penultimo Erdogan, aprendo una serie di fronti poi difficili da sostenere. Il sostegno ai ribelli (e forse anche ai jihadisti) in Siria, la spedizione militare nello Yemen, lo scontro politico con l’Iran, la repressione della minoranza sciita, il sostegno testardo ai livelli di produzione di petrolio hanno sfinito il regno e le sue casse. Con i tagli all’estrazione del greggio, verso la fine del 2016, il re ha fatto la prima marcia indietro. Quali altre saranno infine necessarie?
Su tutto il Medio Oriente, comunque, aleggia l’incognita Donald Trump. Nessuno è in grado di capire se il tycoon diventato presidente sarà il grande pacificatore o il seminatore di nuove zizzanie, tra invettive contro l’Isis, appoggio a Israele e critiche all’accordo raggiunto da Obama sul congelamento del programma nucleare dell’Iran. Eppure Trump, rispetto al grande e feroce viluppo mediorientale, è l’unico elemento nuovo. L’unico fattore, a quel che si vede ora, in grado di far saltare il banco in una regione che pare condannata a divorare perennemente i propri figli. Trump come scommessa. Anche per ricordare che chi è ridotto a scommettere tenta l’ultima carta e non può permettersi di sbagliare.
Il 2016 per il Medio Oriente? Meglio non parlarne. Il 2017? Si parlerà molto di Medio Oriente. Battute a parte, quello che si chiude è stato davvero l’anno orribile della regione. Lo è stato, ovviamente, per le ricorrenti e sempre più crudeli crisi militari che tra i civili hanno mietuto vittime sempre più numerose: dallo Yemen all’Afghanistan, dalla Siria all’Iraq alla Libia, nessuna delle guerre recenti o in corso ha risolto alcunché ma, al contrario, ha allargato e approfondito i problemi, le crisi, i danni, i rancori. Se c’è un vincitore, nel Medio Oriente del 2016, questo è l’Isis. E lo si nota, per paradosso, proprio in quello che è forse il suo momento di maggiore difficoltà. Il compito della milizia jihadista era frammentare Siria e Iraq, diffondere ancor più il radicalismo, minacciare i musulmani con la violenza e agitare gli occidentali con il terrorismo. Obiettivi puntualmente raggiunti, anche se il territorio da essa occupato è oggi assai ridotto rispetto a due anni e mezzo fa.