Medio Oriente: i tre leader regionali in mezzo al guado
In Medio Oriente la presenza di paesi “guida” in grado di determinare gli sviluppi politici e sociali dell’intera area è un fatto antico, che risale già all’epoca dell’indipendenza seguita alla decolonizzazione. Dopo la breve parentesi della Giordania hascemita, il primo grande leader regione fu l’Egitto degli Ufficiali Liberi che per oltre due decenni dominò la scena con il messaggio panarabo di Nasser.
In Medio Oriente la presenza di paesi “guida” in grado di determinare gli sviluppi politici e sociali dell’intera area è un fatto antico, che risale già all’epoca dell’indipendenza seguita alla decolonizzazione. Dopo la breve parentesi della Giordania hascemita, il primo grande leader regione fu l’Egitto degli Ufficiali Liberi che per oltre due decenni dominò la scena con il messaggio panarabo di Nasser.
Ma il Medio Oriente è un luogo a cui la parola “stabilità” si è sempre adattata con difficoltà. Il disastro della Guerra dei Sei Giorni e la morte di Nasser tolsero in fretta le redini regionale all’Egitto per consegnarle un po’ più a est, nel golfo persico e all’Arabia Saudita, confermando che nell’era moderna il potere economico spesso può assai di più della demografia e del carisma. Ma anche questa volta quella dei sauditi fu una egemonia incontrastata solo per breve tempo. La rivoluzione del 1979 catapultò rapidamente l’Iran sulla ribalta regionale. Il potere attrattivo di quella rivolta di popolo e del nuovo messaggio islamico “dal basso” in grado di rovesciare dittatori portò movimenti e politici arabi a guardare verso la Persia con rinnovato interesse. La competizione che ne seguì fra le due sponde del Golfo e che dura ancora oggi ha creato finora enormi effetti collaterali: proxy war, terrorismo jihadista, e perpetua destabilizzazione. Fino alla fine degli anni Duemila la leva del petrolio e la stretta alleanza con gli Stati Uniti avevano permesso a Riyadh di contenere l’Iran a suon di sanzioni e alleanze comprate a caro prezzo. L’Iran degli Ayatollah, nonostante l’affanno, conservava comunque grande influenza, soprattutto in Libano, Siria e, dopo la disastrosa invasione americana del 2003, anche nell’Iraq ora a dominanza sciita.
La Primavera araba ha però rimescolato ancora una volta le carte in tavola aprendo il campo a un altro potenziale peso massimo: la Turchia. Nel 2011 Ankara, dimentica dell’integrazione europea e sempre più rivolta al mondo arabo, appariva come il nuovo fulgido esempio di Islam politico sposato con successo alla democrazia che gli altri paesi della regione avrebbero dovuto seguire. Durò poco. La fine dell’esperimento della Fratellanza musulmana in Egitto e il disastro della rivolta siriana hanno inferto gravi colpi alla capacità della Turchia di influenzare la regione, rendendo quelle di Ankara aspirazioni egemoniche sempre più improbabili.
Ma le cose sono in rapido cambiamento non solo all’interno di tragici scenari come la Siria e lo Yemen. Lo sono soprattutto all’interno dei tre “paesi guida” – o aspiranti tali – della regione. Lo sono in Turchia, dove, dopo aver a lungo cercato numeri e alleanze per cambiare la costituzione in senso presidenziale, con la destituzione del primo ministro Davotoglu il presidente turco ha deciso di fare a meno degli orpelli costituzionali e di trasformare il paese in uno stato presidenziale “di fatto”. Ma la crescente repressione della stampa e del dissenso fanno dubitare che a Erdogan basti diventare il potente presidente di una Turchia ancora democrazia parlamentare solo sulla carta, ma piuttosto diventarne una sorta di incontrastato sultano moderno.
Nel frattempo il vicino iraniano si trova in un trend assai diverso. Nonostante la propaganda iraniana si sforzi di dimostrare il contrario, repressione di stampa, dissenso e diritti civili cono tuttora assai più pesanti in Iran di quanto non lo siano in Turchia. Ma anche a Teheran le cose stanno cambiando, forse in meglio. La chiusura dell’accordo sul nucleare ha aperto la strada a una progressiva apertura del paese, per oltre un decennio dominato politicamente ed economicamente dalle fazioni più oltranziste. Fazioni che hanno saputo approfittare dell’isolamento internazionale del paese in senso propagandistico ma anche imponendosi come leader dell’economia “autarchica” divenuta per alcuni di loro assai proficua. Un monopolio politico-economico che potrebbe finire con l’emergere di gruppi di potere diversi e moderati, oggi rappresentati dal presidente Rouhani, assai più interessati a una normalizzazione dei rapporti col resto del mondo e alla ricerca dello sviluppo economico piuttosto che alla prosecuzione dell’isolazionismo anti-occidentale e all’”esportazione della rivoluzione” tramite il sostegno alla politica settaria in giro per il Medio Oriente. Una partita, quella tra moderati e falchi, che è entrata nel vivo con le ultime elezioni parlamentari che hanno visto una limitata vittoria dei primi, e ai tagli al budget dei Pasdaran, i primi in anni, proposti subito dopo dal governo Rouhani.
Ma se i trend in Turchia e in Iran appaiono piuttosto chiari, tutt’altro si può dire del terzo protagonista: l’Arabia Saudita. “Saudi Arabia is a mess”, ha affermato il 2 maggio Nick Butler nel suo blog sul Financial Times. E non ha tutti i torti. La nuova leadership, di fatto nelle mani del figlio “preferito” di Re Salman, il trentenne Mohammed Bin Salman, alla fine di aprile ha annunciato un piano di riforme economiche e sociali (politiche invece manco a parlarne) intitolato “Visione 2030” che sfiora la fantascienza. Rapida riconversione dell’economia fuori dalla dipendenza petrolifera, creazione di un tessuto di piccole-medie imprese in pochi anni in un paese in cui il 90 percento dei cittadini è impiegato nel settore pubblico, e rapido taglio del sistema dei sussidi da sempre perno del “patto sociale” fra monarchia assoluta e sudditi. Una “visione” che in tempi normali sarebbe destinata a essere archiviata come tale se la politica voluta dallo stesso Bin Salman di aggressiva ricerca di quote di mercato non avesse determinato un crollo ormai stabile dei prezzi portando a un deficit nelle casse saudite che nel 2015 ha sfiorato i 100 miliardi di dollari. Una cifra che le riserve del regno potranno coprire si e no fino al 2017. Nel frattempo qualcosa dovrà succedere o cambiare per coprire questo buco e rendere l’economia saudita più sostenibile. Ma se “visione 2030” appare a molti fantascienza è lecito chiedersi, e con preoccupazione, cos’altro potrebbe essere questo “qualcosa”.
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