
Donald Trump è il 45° Presidente degli Stati Uniti. Ancora increduli i commentatori politici americani, i sondaggisti e i sostenitori di Hillary Clinton. Ma quali possono essere i risvolti di questa nomina sulla politica estera americana e più in particolare sul Medio Oriente? Trump raccoglie un’eredità pesante. L’eredità lasciatagli da Barack Obama ha più interrogativi che risposte. I punti caldi in Medio Oriente sono sostanzialmente cinque. In primis il Tycoon si troverà ad affrontare la difficile questione della guerra civile in Siria, quadro che non può prescindere da valutazioni di relazioni internazionali. Conflitti che si intersecano con rapporti, nuovi e antichi. Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran sono alla finestra per comprendere quali siano le possibili ricadute del fenomeno Trump.
L’America di Obama ha adottato una politica decisamente attendista nella zona. Negli otto anni di Presidenza dell’ex Senatore dell’Illinois, il Medio Oriente ha cambiato faccia: le primavere arabe, la guerra civile in Siria e quella in Yemen, gli accordi sul nucleare con l’Iran, i dissapori con Israele e il gelo con la Turchia di Erdogan post golpe. Il riassetto del Medio Oriente ha provocato alleanze e patti, scontri e proteste. L’attendismo del quasi ex Presidente degli Stati Uniti non è sempre stato visto di buon occhio. Partner esterni e interni hanno criticato la disarmonia delle scelte obamiane.
Uomo solo al comando, ma non troppo, figura complessa, oltre le righe e imprevedibile, Donald Trump si troverà comunque a rendere conto ad un Senato e una Camera che, per quanto dello stesso stesso partito, hanno al loro interno posizioni più vicine all’establishment e al “republican way” di condurre la politica estera. Tra le mille incertezze dell’insediamento di Trump, c’è la sicurezza di un rapporto più saldo con Israele. Benjamin Netanyahu è stato uno dei primi leader esteri ad aver salutato la vittoria del Tycoon. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale, Trump ha usato parole al miele nei confronti di Israele, “riconosceremo Gerusalemme come capitale e vi sposteremo l’Ambasciata”, e ancora “le colonie di Israele non sono un ostacolo per la pace”. Il Primo Ministro israeliano e il suo staff, dal canto loro, non hanno mai nascosto la loro preferenza verso la candidatura di Trump.
L’ipotetico approccio del Tycoon con la questione guerra civile in Siria passa necessariamente dal confronto con la Russia di Vladimir Putin. Il rapporto tra Obama e la Russia si è incrinato dopo il ritorno di Putin sulla plancia di comando. Durante la prima amministrazione, l’ex Senatore dell’Illinois e il suo staff avevano intessuto legami politici pacifici e di cooperazione con l’allora Presidente della Federazione Dmitrij Medvedev. Contrasti, dissapori, accuse e sanzioni, con Putin e la guerra civile del DonBass i rapporti si incrinano, precipitando nell’abisso delle accuse reciproche con l’intervento russo in Siria. Flashback da guerra fredda, l’opinione comune di analisti e giornalisti vede invece Donald Trump in contrapposizione con la politica attuata al suo predecessore. Le parole in campagna elettorale e il modus operandi da business man sono possibili garanzie di una svolta nei rapporti tra i due paesi. Pesi e contrappesi, la propensione piramidale e aziendale dello Stato di Trump è in questo senso sinonimo di decisioni unilaterali e poco disposte al dialogo interno, molto di più verso gli attori esterni.
Se le predizioni di un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia divenissero realtà, anche lo scacchiere della guerra civile siriana vedrebbe una luce in fondo al tunnel. Luce chiamata Assad. Rimane l’interrogativo curdo siriano che, in attesa di risposte, continua la sua avanzata verso Raqqa. La Siria dei Curdi e la Turchia di Erdogan, il rapporto tra Washington e Ankara si è raffreddato dopo il fallito golpe di agosto e il riavvicinamento di quest’ultima con Mosca. Il principale partner Nato nell’area Mediorientale è un altro degli interrogativi con cui Trump dovrà fare i conti. Sostenere con forza Erdogan potrebbe voler dire sacrificare l’alleato Curdo siriano. Erdogan e Putin sembrano aver trovato già un accordo sul nome di Assad, ex nemico numero uno di Ankara, ora secondo della lista dopo l’avanzata dell’Ypg dietro alla linea di confine.
Sul tavolo delle valutazioni ci sarà anche il dossier sull’Iran. Il grande successo della politica estera di Barack Obama è stato l’accordo sul nucleare con Tehran, ma l’ambiguità con cui agisce il paese degli Ayatollah è un’incognita troppo grande da non considerare. Rimettere in gioco l’Iran è stata una mossa che ha creato conseguenze. L’Arabia Saudita, da gatekeeper, ha risposto agli accordi abbassando il prezzo del greggio per limitare i profitti della vendita del petrolio dell’Iran, non una notizia positiva per i produttori ultra repubblicani di shale oil. Ryad ha poi alzato il livello di scontro nelle periferie del Medio Oriente, Siria e Yemen in particolare, cercando così di limitare la prolificazione diplomatica di Teheran. Donald Trump, durante la campagna elettorale, ha più volte criticato la decisione di Obama di aprire all’Iran. Possibile quindi prevedere una svolta in questo senso, ma solo se tutte le tessere del puzzle si collocano. Da Teheran intanto arriva un messaggio diretto al Tycoon, “Trump rispetti i trattati internazionali siglati”.
Dall’isolazionismo involontario di Obama ad un necessario riposizionamento, il 45° Presidente degli Stati Uniti sarà presto chiamato alla prova del Medio Oriente. Amici e nemici, Trump nega la politica del compromesso portata avanti dal suo predecessore, indicando, durante tutta la campagna elettorale, la necessità di tracciare una linea immaginaria tra “noi e voi”.