Per arrivare a un tasso di occupazione pari ai nativi del paese ospitante per i rifugiati ci vogliono almeno 20 anni. Nei primi cinque anni dall’arrivo nel paese solo un rifugiato su quattro ottiene un lavoro. Dopo dieci anni nel paese, il tasso di occupazione è in media del 56%, tre punti in meno rispetto ai migranti di altre categorie e almeno nove punti in meno rispetto ai nativi del paese di accoglienza. Se si è disoccupati per lungo periodo, per un lavoratore nativo non è certamente facile reinserirsi nel mercato del lavoro, per un rifugiato quasi impossibile. È quanto emerge da un’analisi dell’OCSE in collaborazione con la DG Lavoro della Commissione Europea.
Il difficile mercato del lavoro per i rifugiati (spesso qualificati)
I rifugiati sono concentrati soprattutto in pochi stati membri, in Germania, in Francia, in Svezia e in Inghilterra. Un 10% anche in Austria e in Belgio. Nel 2014 erano 1.8 milione sparsi in 25 paesi UE. Già negli anni precedenti , la Germania contava 660 mila rifugiati e l’Inghilterra 300. La Svezia conta il più alto numero di migranti di varie categorie, non solo rifugiati, seguita dalla Croazia e dal Belgio.
Ad arrivare sono in gran parte uomini. Uno su cinque tra i quindici e i sessantaquattro anni, degli arrivati in Europa nel 2015, aveva un’istruzione universitaria. Ma il livello di istruzione varia a seconda dei paesi di accoglienza : due terzi dei rifugiati in Spagna hanno una formazione di livello universitario, mentre sono meno istruiti, solo il 15% ha un tale background, in Germania, Italia e Croazia.
In media il 60% dei rifugiati con una laurea sono sovra qualificati rispetto alle posizioni lavorative che occupano, almeno due volte rispetto ai nativi del paese ospitante e rispetto agli altri gruppi di migranti. La ragione sta anche nella difficoltà dei datori di lavoro nel valutare qualifiche di paesi stranieri e la mancanza di documentazione sulle lauree dei rifugiati.
Poca è la conoscenza rispetto al paese ospitante, meno del 45% afferma di aver una conoscenza approfondita. Per l’inserimento nella società e nel mondo del lavoro la conoscenza della lingua del paese è essenziale ed è stato constato che l’apprendimento della lingua migliora maggiore è il periodo di permanenza nel paese di accoglienza. È un tema però non trascurabile perché secondo l’analisi con un livello almeno intermedio di conoscenza della lingua le possibilità di impiego sarebbero effettivamente maggiori ( almeno dieci punti percentuali in più).
In media si può affermare, secondo i dati , che uno su cinque dei rifugiati economicamente attivi è disoccupato e uno su otto è disoccupato per almeno un anno o più e uno su quattordici è stato disoccupato per un periodo di due anni o più e questo significa che una volta entrato nella disoccupazione è estremamente difficile reinserirsi nel mercato del lavoro. Per le donne avere accesso ad un impiego è una vera sfida con un livello di occupazione del 45% , diciassette punti percentuali in meno rispetto a un uomo. Tra uomini e donne esiste un gap anche nel tasso di attività di almeno venti punti: rispettivamente del 77% contro il 57%.
In generale i rifugiati tendono di più rispetto agli altri gruppi di migranti a naturalizzarsi prendendo la nazionalità del paese ospitante dopo dieci anni di residenza e in questo caso hanno un livello di occupazione che si alza di oltre dodici punti percentuali rispetto ai migranti che non la richiedono, che si sono trasferiti solo per lavorare o studiare.
Per arrivare a un tasso di occupazione pari ai nativi del paese ospitante per i rifugiati ci vogliono almeno 20 anni. Nei primi cinque anni dall’arrivo nel paese solo un rifugiato su quattro ottiene un lavoro. Dopo dieci anni nel paese, il tasso di occupazione è in media del 56%, tre punti in meno rispetto ai migranti di altre categorie e almeno nove punti in meno rispetto ai nativi del paese di accoglienza. Se si è disoccupati per lungo periodo, per un lavoratore nativo non è certamente facile reinserirsi nel mercato del lavoro, per un rifugiato quasi impossibile. È quanto emerge da un’analisi dell’OCSE in collaborazione con la DG Lavoro della Commissione Europea.