
Oltre trentamila desaparecidos negli ultimi anni, un rapimento ogni due ore. E il governo risponde con una legge ad hoc. Ma ancora non riconosce la gravità della crisi dello Stato di diritto, testimoniata anche dall’impennata di omicidi e aggressioni contro la stampa
La scorsa settimana il presidente Enrique Peña Nieto ha ufficialmente promulgato la Legge generale contro la sparizione forzata, un decreto che si prefigge di contrastare una pratica che in Messico ha prodotto almeno 33mila desaparecidos negli ultimi anni.
Come specifica il diritto internazionale, si parla di «sparizione forzata» quando un sequestro di persona viene direttamente commesso dai rappresentanti dello Stato oppure sotto l’autorizzazione o l’acquiescenza delle istituzioni. La nuovissima legge in materia emanata giovedì 16 novembre punisce duramente i funzionari pubblici giudicati colpevoli di questo crimine (dai quaranta ai sessanta anni di carcere) e prevede la formazione di una commissione appositamente dedicata alla localizzazione dei dispersi, con un budget iniziale di circa 25 milioni di dollari.
Il Registro nazionale delle persone disperse (Rnped) conteggia 33.482 desaparecidos in Messico. Un numero enorme ma probabilmente inferiore a quello reale, considerata la mole dei dispersi che vengono inspiegabilmente esclusi dalle statistiche ufficiali: elenchi alternativi, stilati da organizzazioni della società civile, arrivano a contenere anche centomila persone, moltissime delle quali senza un nome. Secondo il Rnped, soltanto dal 2013 al luglio di quest’anno il numero degli scomparsi non ancora localizzati ammontava a 19.156. Durante il mandato di Peña Nieto c’è stato, in media, un rapimento ogni due ore.
Una legge ad hoc, per quanto rappresenti un fondamentale passo in avanti, non basterà a debellare un fenomeno tragicamente enorme ed incredibilmente complesso. Almeno finché la classe dirigente, incluso lo stesso presidente Peña Nieto, non uscirà dal suo arroccamento per confrontarsi davvero con la popolazione e assumersi la responsabilità dei problemi del Paese. Oltre al dramma delle sparizioni forzate, oggi il Messico deve infatti fare i conti anche con una brusca impennata degli omicidi, che nel 2016 hanno sfiorato quota 24.000. E il 2017, non ancora concluso, già si prospetta peggiore: lo scorso ottobre è stato il mese più violento degli ultimi vent’anni.
Eppure Peña Nieto si rifiuta di accettare la gravità della situazione. Di recente ha dichiarato che il vero problema non è l’insicurezza – circoscritta, a suo dire, solo in alcune aree del Paese – ma la sua percezione esagerata, alimentata da quella parte della società civile capace solo di criticare l’operato del governo e di «fare bullying» verso le istituzioni. Qualche mese fa la supervisore dei conti Arely Gómez accusò similmente i social network di amplificare la percezione della corruzione istituzionale. Eppure, secondo il Fondo monetario internazionale (non esattamente una Ong “buonista”) la corruzione rappresenta il 2% del Pil del Messico, mentre la debolezza dello stato di diritto costituirebbe uno dei principali impedimenti alla crescita del Paese.
Un’altra crisi che Peña Nieto e il suo gabinetto di governo non stanno affrontando con la dovuta attenzione è quella delle aggressioni contro la stampa. Dal 2000 al 2017 in Messico sono stati assassinati 111 giornalisti, di cui 38 durante il mandato dell’attuale presidente e addirittura 11 nell’anno corrente. L’ultima vittima è Edgar Esqueda, il fotoreporter ritrovato morto il 6 ottobre scorso dopo essere stato prelevato dalla sua abitazione da alcuni uomini in uniforme poliziesca.
La storia di Edgar Esqueda contiene molti degli elementi topici che la accomunano a quelle di tanti altri giornalisti assassinati in Messico. Per cominciare, Esqueda collaborava con media locali e non di respiro nazionale; aveva ricevuto minacce relazionate al suo lavoro da parte di funzionari pubblici; era stato criminalizzato attraverso l’insinuazione di legami con gli ambienti criminali; aveva sporto denuncia e richiesto la protezione dello Stato, inutilmente.
Secondo Article19, organizzazione che si occupa della tutela della libertà di stampa nel mondo, nel primo semestre del 2017 in Messico si sono registrate 1,5 aggressioni giornaliere contro la stampa, con un aumento del 23% rispetto allo stesso periodo del 2016. Il 2017, non ancora concluso, ha già eguagliato per violenza le cifre record dell’anno precedente, il più mortifero per i cronisti a pari demerito con il 2010. Ma ciò che sorprende è, ancora una volta, l’enormità del sommerso che avviene al di fuori delle pur fondamentali liste stilate dagli osservatori nazionali ed internazionali.
Sebbene il numero di omicidi di giornalisti sia in continuo aumento dal 2013, inizio effettivo del mandato di Enrique Peña Nieto, la risposta dello Stato è debole e l’interesse sembra essere solo formale. Le misure di protezione specifica implementate si sono rivelate inefficaci (Cándido Ríos, il decimo reporter assassinato nel 2017, era stato inserito in un programma di tutela), e la percentuale di impunità supera abbondantemente il 90%: delle 798 denunce di aggressione verso i giornalisti conteggiate ufficialmente dal 2010 al 2016, solo lo 0,3% si è concluso con una condanna. Le indagini sull’omicidio di Javier Valdez – cronista molto famoso in patria, il sesto ad essere stato ucciso quest’anno – non sembrano aver prodotto risultati ad oltre sei mesi dalla loro apertura. Ad un punto morto sono anche quelle su Miroslava Breach, nota corrispondente del quotidiano La Jornada assassinata il 23 marzo scorso. Dopo due anni, non è ancora stato fornito un movente accettabile per l’omicidio del fotoreporter Rubén Espinosa e di altre quattro donne, e il caso, che raggiunse l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, si è rivelato una miscela di omissioni e depistaggi.
Il governo Peña Nieto si ritrova inoltre a dover fronteggiare l’accusa di spionaggio illecito contro giornalisti e attivisti mossagli a giugno dal New York Times, da Citizen Lab e da diverse organizzazioni per i diritti umani. Più recentemente, il licenziamento dello storico giornalista radiofonico Leonardo Curzio, voce critica verso il partito al potere, ha riacceso il dibattito sulla libertà di stampa in Messico, minacciata anche dalla dipendenza economica dei media nei confronti degli spazi pubblicitari acquistati dal governo. Dal 2013 al 2016 le istituzioni messicane hanno speso oltre due miliardi di dollari in pubblicità sui mezzi di informazione, ma negano di esercitare un controllo e di imporre censure sulla loro linea editoriale.
@marcodellaguzzo
Oltre trentamila desaparecidos negli ultimi anni, un rapimento ogni due ore. E il governo risponde con una legge ad hoc. Ma ancora non riconosce la gravità della crisi dello Stato di diritto, testimoniata anche dall’impennata di omicidi e aggressioni contro la stampa