È il paradosso messicano: uno Stato che applica con rigore le dottrine economiche più affermate, ma che cresce al di sotto delle aspettative. Il divario tra ricchi e poveri è ancora profondo. Ma il nuovo presidente promette grandi cambiamenti
In Messico la vittoria, larghissima, del candidato di sinistra Andrés Manuel López Obrador alle elezioni del 1 luglio ha relegato i partiti storici a posizioni piuttosto marginali nel nuovo Congresso. Il Movimento di rigenerazione nazionale, fondato nel 2011 dal presidente eletto, ha ottenuto il 38% circa degli scanni alla Camera e il 43% al Senato. Mentre il Pri, attualmente al governo e dominante per tutto il XX secolo, avrà meno seggi alla Camera di Incontro sociale, una piccola formazione di estrema destra all’interno della coalizione vincente.
Il trionfo di López Obrador e lo stravolgimento politico che ne è derivato aprono le porte ad un possibile cambio di sistema, da alcuni ritenuto necessario in un Paese che, a vent’anni dall’inizio della transizione democratica, ancora fatica ad imporre il rispetto della legge e a garantire la tutela dello Stato di diritto. Oltre all’indignazione per la corruzione e al desiderio di pace – 29.000 morti per omicidio lo scorso anno –, l’altro fattore che ha determinato l’elezione di López Obrador è stato la frustrazione della popolazione per un modello economico che non ha garantito a tutti un benessere adeguato e che non ha risolto le disuguaglianze sociali.
Mentre il Pri si è forse concentrato troppo sugli indicatori macroeconomici e sulle riforme strutturali di medio-lungo periodo, López Obrador ha detto: «Per il bene di tutti, prima i poveri». È un motto semplice ma che risulta tutt’altro che banale in un Paese in cui 53 milioni di persone (il 43% del totale degli abitanti) vivono al di sotto della soglia minima di ricchezza. Nonostante i numeri enormi, i poveri risultano però quasi invisibili per i ceti benestanti.
Qualche settimana fa la rivista Club, supplemento patinato del quotidiano Reforma, ha pubblicato una fotografia che esprimeva questa indifferenza dell’alta borghesia nei confronti dei meno abbienti: nella splendida città coloniale di San Miguel de Allende, davanti ad un edificio storico, due sposi in abiti sontuosi si sorridevano a vicenda mentre al loro fianco, seduta sul marciapiede, c’era una donna indigena che vendeva bambole di pezza.
La foto è stata criticatissima e accusata di razzismo e di classismo: la povertà non era stata rappresentata né come un problema e nemmeno come un fatto ma come un semplice elemento folkloristico che aggiungeva colore allo scatto. Dalla fotografia, certamente di cattivo gusto, si può però ripartire per raccontare quel paradosso che la vittoria di López Obrador – con il suo voler essere il presidente di tutti, ma prima di tutto dei poveri – ha in un certo senso portato alla luce: cioè che in Messico convivono, paradossalmente appunto, elementi del primo e del terzo mondo.
Dagli anni novanta il Messico ha avviato una fase di profonda ristrutturazione della propria economia, eliminando i monopoli statali e aprendosi al mercato. Ha applicato con rigore tutte le dottrine più accreditate. Ha firmato accordi di libero scambio e smesso di affidarsi al petrolio per diventare una nazione esportatrice di manufatti e automobili. Ha visto crescere la propria classe media. Ha stabilizzato la sua tenuta finanziaria. E oggi possiede il 15° Pil nominale più alto del pianeta, un gradino sotto la Spagna – l’Italia è nona -.
Eppure, come spiega il nuovo libro dell’economista messicano Santiago Levy, tutti gli sforzi fatti non si sono poi tradotti in risultati all’altezza. Negli ultimi quindici anni la crescita è stata continua ma fissa al 2% circa, un dato non eccezionale per un Paese in via sviluppo. Dal 1995 al 2015 il Pil pro capite è cresciuto appena dell’1,2% l’anno: solo il Venezuela ha fatto peggio in America latina.
Il tasso di povertà non si è ridotto in maniera soddisfacente, e nonostante qualche buon risultato nel nord, nelle regioni meridionali non ci sono stati progressi apprezzabili. Dal 2014 al 2016, anzi, la povertà è aumentata negli Stati di Oaxaca, Tabasco, Campeche e Chiapas, dove supera il 77%.
Secondo uno studio del 2017 della Commissione economica per l’America latina e i Caraibi (Cepal), il Messico occupa la 20° posizione nella classifica dei Paesi con il maggior numero di milionari e contemporaneamente il 15° posto nella lista di quelli con più abitanti in condizione di povertà alimentare. Un messicano, il magnate delle telecomunicazioni Carlos Slim, è stato l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes dal 2010 al 2013 ed attualmente è settimo, con un patrimonio stimato di 67 miliardi di dollari.
All’interno dell’Ocse il Messico è lo Stato con la più alta disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Stando alla Banca mondiale, il 10% più ricco della popolazione concentra nelle sue mani quasi il 40% delle entrate nazionali.
La liberalizzazione economica, pur con i suoi – parziali – meriti generali, ha allargato il divario tra la ristretta minoranza che ha troppo e la larga maggioranza che ha troppo poco. Un rapporto di Oxfam del 2015 – redatto peraltro dall’economista Gerardo Esquivel, oggi nel team di López Obrador – notava come, a fronte di un numero di multimilionari rimasto stabile (16), la loro fortuna fosse aumentata notevolmente in questi ultimi anni: nel 2002 il patrimonio di appena quattro messicani corrispondeva al 2% del Pil, nel 2014 al 9%.
Questa realtà di estrema concentrazione della ricchezza è figlia della persistenza dei monopoli – ora non più pubblici ma privati, e incoraggiati in passato da una parte della politica – che ostacolano la crescita della produttività del Messico, che pure è il membro dell’Ocse in cui si lavora mediamente per più ore all’anno.
Per molti messicani la modernità non ha risolto le disuguaglianze e il primo mondo è rimasto un sogno. Andrés Manuel López Obrador, che promette di separare il potere economico da quello politico, è il primo presidente dagli anni novanta a mettere in discussione – quantomeno moderata – il modello neoliberista. Intende alleviare le disparità trasferendo la ricchezza dall’alto verso il basso ma assicura che non ci saranno espropri né nazionalizzazioni: verranno invece tagliati gli stipendi dei politici – compreso il suo – e dei grandi dirigenti e aumentati di riflesso quelli di insegnanti infermieri, medici e poliziotti, mantenendo l’inflazione sotto controllo.
«Non vi deluderò», aveva detto la notte della vittoria. Un’altra richiesta di fiducia per un politico sicuramente attento alla giustizia sociale ma che ha preso impegni che non gli sarà facile mantenere.
@marcodellaguzzo