Complice l’elezione di Trump e il duro programma Frontera Sur, il Messico da terra di passaggio si sta trasformando in meta di immigrazione. Mentre aumenta sempre di più il numero dei richiedenti asilo in fuga dal collasso del Venezuela
Mentre si fa sempre più grave il collasso dell’economia della Repubblica bolivariana del Venezuela – il Fondo Monetario Internazionale prevede per quest’anno una contrazione del 15% e un tasso di inflazione al 13.000% –, aumenta di riflesso anche il numero di quelli che fuggono dal Paese. Tomás Páez, ricercatore presso l’Università centrale del Venezuela, stima che dal 1999 (inizio della prima presidenza Chávez) ad oggi circa tre milioni di venezuelani abbiano abbandonato la loro nazione. Quasi la metà di loro – 1,2 milioni di persone – lo ha fatto solo negli ultimi due anni. La diaspora ha coinvolto un decimo della popolazione totale.
La diaspora venezuelana
Le destinazioni preferite dai migranti venezuelani sono due, Colombia e Brasile: il motivo è la vicinanza al confine. Erano 550.000 i venezuelani in territorio colombiano alla fine del 2017, fa sapere il governo di Bogotá, con un aumento del 62% rispetto all’anno precedente; i migranti si concentrano a Cúcuta, una città posta praticamente sulla linea di frontiera col Venezuela. Il Brasile ipotizza invece che ce ne siano 40.000 nei dintorni di Boa Vista, capitale dello Stato settentrionale di Roraima.
Le condizioni di vita nei campi profughi delle due nazioni sudamericane sono precarie e difficili; l’accoglienza è complicata dall’inesperienza dei governi, tanto di Bogotá che di Brasilia, che non possiedono un piano solido che gli permetta di gestire una crisi migratoria e umanitaria di simili proporzioni. Né Michel Temer né Juan Manuel Santos si spingono però fino ad incolpare gli esuli venezuelani della serietà della situazione: la responsabilità, dicono, è tutta di Nicolás Maduro e delle sue scelte politiche ed economiche.
Il Messico contro Maduro
Il governo più critico verso Maduro di tutta l’America latina si trova a nord: è il Messico. Pur di perseguire questa postura, l’aquila azteca è arrivata anche a scontrarsi con gli Stati Uniti. Maduro ha accusato il suo omologo Enrique Peña Nieto di essere un servo di Donald Trump, quando in realtà il Messico ha preso le distanze e disapprovato sia le minacce di un’azione militare americana, sia l’esortazione (celata) di Rex Tillerson ad un golpe, sia la proposta di un embargo petrolifero. E questo nonostante gli Stati Uniti rappresentino per il Messico non soltanto un potente vicino, ma soprattutto un grande alleato strategico e un cruciale partner commerciale.
L’interesse dell’amministrazione Peña Nieto per la condizione interna del Venezuela si può spiegare con la campagna di discredito messa in piedi dal partito di governo, il Pri, contro Andrés Manuel López Obrador, il candidato della sinistra “populista” in testa ai sondaggi per le presidenziali di luglio, che viene accusato – senza grossi fondamenti – di simpatie maduriste. Ma si spiega anche con il timore che la diaspora della popolazione del Venezuela possa finire col destabilizzare il Messico. Sono infatti sempre di più i venezuelani che vi cercano asilo politico: nel 2015 erano appena 57, nel 2016 361, nel 2017 4042.
Quella venezuelana è la nazionalità che è di gran lunga cresciuta di più in questi anni, ma l’aumento del numero di richiedenti asilo è generale. L’impennata di domande si è verificata tra il 2015 e il 2016, ed è stata corrisposta da un aumento delle accettazioni: nel 2015 è stato accolto il 39% delle richieste elaborate, nel 2016 il 51%.
Il sogno messicano
Da terra di passaggio, il Messico si sta parzialmente e lentamente trasformando in un Paese di immigrazione. Secondo la Commissione messicana per l’aiuto ai rifugiati, nel 2013 il Messico ha ricevuto meno di 1300 richieste di asilo; nel 2017 sono state 14.596, undici volte tanto. Ma se nel 2013 le domande di protezione giungevano soprattutto da honduregni e salvadoregni – e così anche nel 2014, nel 2015 e nel 2016 –, a partire dallo scorso anno i venezuelani hanno superato i profughi di El Salvador e quasi pareggiato quelli dell’Honduras: 4042 istanze presentate, contro le 4272 e le 3708 avanzate invece dai due popoli centroamericani. Per numero di richieste accolte (905 sulle 912 portate a compimento), i cittadini di Caracas sono i primi.
Il motivo di questo cambiamento generale – se si lascia da parte la crisi venezuelana – ha a che vedere probabilmente con l’applicazione del programma Frontera Sur nell’estate del 2014. Finanziato anche da Washington nell’ambito della più vasta Iniziativa Mérida (un trattato bilaterale di sicurezza entrato in vigore nel 2008), Frontera Sur si prefigge di rafforzare i controlli sul poroso confine meridionale e disincentivare l’immigrazione irregolare proveniente dall’America Centrale e diretta negli Stati Uniti. Sono dunque aumentati enormemente gli arresti e le deportazioni di migranti, e di riflesso anche gli abusi e le violenze nei loro confronti.
Nel 2014 l’Immigration and Customs Enforcement americano rimpatriò oltre 122.000 persone provenienti da El Salvador, Guatemala e Honduras, mentre l’Instituto de Migración messicano poco più di 104.000. Nel 2015 invece, stando ai dati diffusi dal ministero dell’Interno, il Messico ha espulso 176.726 centroamericani, e quasi 151.000 nel 2016: ben più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti negli stessi anni.
Si tratta di una strategia pensata apposta per dissuadere i centroamericani dall’intraprendere la traversata per gli Stati Uniti, e nel contempo per impedire a quelli rimasti bloccati lungo il Río Bravo di dare vita a dei campi profughi. Eppure proprio l’aumento delle incarcerazioni ha avuto l’effetto di far lievitare le richieste di asilo: se il sogno americano è inaccessibile – hanno pensato gli esuli del Triangolo del nord –, allora andrà benissimo anche quello messicano.
L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca ha creato poi nei migranti l’impressione che gli Stati Uniti siano diventati un posto ancora più ostile verso gli stranieri: la retorica deportatrice del presidente gli è ben nota, e negli scorsi mesi sono effettivamente stati rimossi dei programmi umanitari a tutela dei cittadini di El Salvador, Haiti e Honduras. Che nell’ala ovest oggi tiri un’aria diversa lo hanno percepito anche i coyotes, le guide dei migranti, che hanno prontamente alzato le tariffe per chi proprio non vuole rinunciare ad una vita negli States.
Fare domanda di asilo in Messico permette dunque ai centroamericani – a quelli che se la vedono riconosciuta – di sottrarsi alla deportazione, che li rispedirebbe nei luoghi brutali da cui sono fuggiti, e nel contempo di evitare i tanti pericoli del passaggio verso nord. Dietro pressione delle organizzazioni per i diritti umani e degli osservatori internazionali, che hanno ripetutamente denunciato i trattamenti riservati ai migranti, il governo di Città del Messico ha iniziato ad accettare profughi ad un tasso maggiore. Ma forse non ha ancora metabolizzato questa realtà, continuando a stanziare più risorse per le politiche di contenimento dei flussi che per quelle finalizzate all’accoglienza e all’integrazione.
Nell’immediato futuro le domande di protezione potrebbero però continuare ad aumentare: la crisi della sicurezza in Centroamerica, motore dell’emigrazione, non rientrerà tanto facilmente, e anche la situazione in Venezuela andrà probabilmente peggiorando prima di migliorare. In passato il Messico funse da rifugio per gli schiavi fuggitivi provenienti dagli Stati Uniti e per gli esuli della guerra civile spagnola. Oggi sembra essere chiamato a recuperare quel ruolo.
@marcodellaguzzo
Complice l’elezione di Trump e il duro programma Frontera Sur, il Messico da terra di passaggio si sta trasformando in meta di immigrazione. Mentre aumenta sempre di più il numero dei richiedenti asilo in fuga dal collasso del Venezuela