Lo sfruttamento senza regole avvelena la terra e i suoi abitanti. Gli attivisti che si oppongono finiscono nel mirino della repressione statale e dei clan criminali. Il numero degli omicidi cresce. E la privatizzazione del settore energetico può lanciare una nuova corsa alla terra
Secondo una stima realizzata dal Guardian e dalla ong Global Witness, nel 2017 sono stati assassinati 197 attivisti ambientali in tutto il mondo, con una media di quattro omicidi ogni settimana. Dopo Brasile (46 vittime), Filippine (41) e Colombia (35), il Messico è attualmente il quarto Paese più pericoloso per gli ecologisti, con 15 uccisioni accertate nell’anno appena trascorso. Nel 2016, con tre casi di omicidio, era il quattordicesimo.
Come riporta il Guardian, in America latina “l’abbondanza delle risorse naturali è spesso inversamente proporzionale all’autorità della legge o alla regolamentazione ambientale”. Anche il Messico è infatti ricchissimo di metalli (oro, argento, rame, piombo) e di idrocarburi (greggio, gas naturale, olio di scisto), ma le legislazioni che ne regolano lo sfruttamento sono scarsamente rispettose dell’ambiente ed eccessivamente orientate alla difesa degli interessi economici degli imprenditori.
Dall’entrata in vigore della Ley Minera del 1992, che ha pienamente liberalizzato il settore minerario, gli ettari di territorio ceduti in concessione sono arrivati a corrispondere al 12% della superficie nazionale, una percentuale equivalente a quella destinata alle aree protette e spesso coincidente con quest’ultima. L’accaparramento di terre, spesso violento, e la natura altamente impattante dei processi di sfruttamento – che necessitano di grandi volumi d’acqua da combinare con il cianuro – sono causa di numerosi conflitti sociali e ambientali, specialmente nella porzione centro-settentrionale del Messico, dove si concentra il maggior numero di miniere. Si teme poi che la più recente privatizzazione del settore petrolifero ed energetico possa dare il via ad una nuova “corsa alla terra” e ad un ulteriore incremento dei prelievi di acqua.
Dal 2002 al 2017 in Messico, stando a vari resoconti redatti da Global Witness, sono state assassinate almeno 67 persone a causa del loro attivismo in difesa dell’ambiente. Il nome più famoso è quello di Isidro Baldenegro López, portavoce della comunità indigena tarahumara contro l’abbattimento delle foreste nella Sierra Madre occidentale, a cui nel 2005 era stato assegnato il prestigioso Premio Goldman per l’ambiente. Baldenegro è stato ucciso nello stato messicano di Chihuahua il 15 gennaio 2017; neanche un anno prima in America latina era stato assassinato un altro Premio Goldman, l’attivista honduregna Berta Cáceres.
Come per le violenze contro i giornalisti e i politici, in Messico anche la responsabilità dei crimini contro gli ambientalisti va ricondotta tanto alla criminalità organizzata quanto alla repressione statale.
Il legame tra omicidi di attivisti e gruppi criminali si collega alla riorganizzazione gerarchica dei business illeciti, causata a sua volta dalla dissoluzione dei cartelli e dalla nascita di tante piccole gang locali. Al posto del narcotraffico, che necessita di grossi investimenti in logistica, queste nuove organizzazioni preferiscono attività meno rischiose e più facilmente praticabili, come ad esempio il diboscamento illegale e il commercio di legname.
L’abbattimento di alberi – narcotala – è una pratica violenta sia verso l’ambiente sia verso le comunità, spesso marginali e contadine, che abitano quei territori e che vengono costrette con la forza a spostarsi altrove. Guadalupe Campanur, la prima ecologista ad essere stata assassinata in Messico nel 2018, forse da mano criminale, era una giovane guardaboschi di etnia purépecha che si opponeva proprio alla deforestazione di un municipio dello stato di Michoacán.
Dal 2010 al 2016 il Centro messicano di diritto ambientale (Cemda) ha registrato oltre 300 casi di aggressione contro gli attivisti ambientali, che nella maggior parte delle volte – il 43% – vengono però commessi non da criminali, ma da funzionari pubblici di vario livello. L’alta partecipazione delle istituzioni a questi episodi di violenza sembrerebbe spiegare sia la mancanza di statistiche ufficiali sul fenomeno, sia la diffusissima impunità dei colpevoli, sia la generale riluttanza degli attivisti a rivolgersi allo Stato per ottenere protezione.
Oltre alle minacce verbali e agli assalti fisici, in Messico – ricorda Global Witness – gli attivisti sono particolarmente esposti anche alla criminalizzazione. Diffamazioni mediatiche e detenzioni arbitrarie sono strumenti di cui lo Stato messicano si serve per “silenziare” le comunità o i singoli portavoce che si oppongono allo sfruttamento del loro territorio e delle risorse naturali: soprattutto, come visto, l’acqua, sempre più scarsa nel centro-nord a causa degli enormi consumi delle compagnie minerarie.
Anche il ricorso alla repressione armata è piuttosto frequente. L’episodio più noto è quello di Ostula del 19 luglio 2015, quando quindici soldati dell’esercito aprirono il fuoco sulla manifestazione di una popolazione indigena che protestava contro l’arresto di un conterraneo – peraltro ingiustificato, infatti l’uomo venne in seguito liberato per mancanza di prove –. in quella circostanza morì un bambino e una decina di persone rimasero gravemente ferite. Gli indigeni di Ostula denunciano da anni di subire abusi da parte di una impresa mineraria attiva nel loro territorio.
Oltre ai quindici ambientalisti presenti nella lista di Global Witness, nel 2017 in Messico sono stati assassinati anche dodici giornalisti, nove sindaci e più di 29mila civili, mentre l’elenco dei desaparecidos contiene ancora oltre 33mila nomi.
La preoccupante condizione generale dei diritti umani incrina l’immagine del Messico che la classe dirigente ha intenzione di promuovere all’estero: quella cioè di un Paese moderno che ha completato la sua transizione verso la democrazia e che è oggi pronto ad accogliere gli investimenti stranieri.
Ma mentre effettivamente avanza il processo di apertura economica, che ha investito in particolare il settore estrattivo, col rischio di esasperare la già alta conflittualità sociale e ambientale, lo Stato messicano non ha ancora messo a punto strategie efficaci di prevenzione e tutela degli attivisti. Al contrario, negli ultimi anni gli omicidi e le aggressioni nei loro confronti sono aumentate.
Mancano inoltre misure concrete per combattere l’impunità e l’utilizzo illegittimo della forza pubblica. La controversa e criticata Ley de Seguridad Interior – approvata lo scorso dicembre – ha addirittura formalizzato la militarizzazione della sicurezza interna, che gli oppositori ritengono funzionale anche al controllo delle risorse naturali, aumentando di fatto il rischio di nuove repressioni armate contro gli attivisti e i civili.
@marcodellaguzzo
Lo sfruttamento senza regole avvelena la terra e i suoi abitanti. Gli attivisti che si oppongono finiscono nel mirino della repressione statale e dei clan criminali. Il numero degli omicidi cresce. E la privatizzazione del settore energetico può lanciare una nuova corsa alla terra