“Gli Stati Uniti hanno eletto uno xenofobo e un bugiardo”, “Gli Stati Uniti hanno votato per il muro e per le bugie di Donald Trump”: sono alcuni titoli di giornali messicani la mattina dopo la materializzazione del peggior scenario per il Messico. E non sono prime pagine di giornali di sinistra, ma quelle dei principali quotidiani economici.
Mentre scriviamo, il peso messicano sta perdendo quasi il 10% del suo valore e la Banca Centrale del Messico e il Segretario del Tesoro stanno per riunirsi per decidere sull’attuazione del piano di crisi già applicato l’indomani della crisi finanziaria nel 2008.
Non è un mistero perché il Messico si stia approntando per un remake dello scenario “Grande recessione”: per nessun altro Paese la posta in gioco è così alta come per il vicino meridionale degli Stati Uniti.
Trump ha attaccato il Messico e i messicani fin dal primo giorno della sua campagna elettorale con disprezzo e parole molto dure: i messicani, secondo lui, sono criminali, stupratori e spacciatori di droga. Il Messico ruba posti di lavoro statunitensi lasciando emigrare illegalmente frotte di messicani e sfruttando l’Accordo di libero scambio del Nord America (Nafta). Trump vuole abrogare il Nafta, cancellare la cittadinanza ai bambini messicani che nascono negli USA, deportare circa 5 milioni di messicani illegali e, come se ciò non fosse abbastanza per punire il vicino, “costruire un muro”, un “gran bel muro” lungo i quasi 3000 km del confine Stati Uniti-Messico.
Anche se tali promesse fossero parzialmente solo retorica da campagna elettorale, resta il fatto che gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale del Messico e assorbe l’80% del suo export.
Nel 2015 il Messico vi ha esportato 295 miliardi di dollari, il 73% rispetto al 2005, e 21,6 miliardi in servizi, il 50% in più che nel 2005, secondo i dati del governo degli Stati Uniti. Su tutto o parte di questi prodotti, in particolare auto, Trump vuole imporre un dazio del 35%.
Cruciale in questo scambio è stato il Nafta, che Trump ritiene “stia uccidendo” gli scambi commerciali statunitensi. Contro il Nafta si levano critiche anche in Messico da settori di lavoratori che, analogamente a quelli statunitensi che ieri hanno votato per Trump, soffrono gli effetti degli aspetti negativi della globalizzazione, e da aziende messicane che faticano di fronte alla più efficiente concorrenza nordamericana. Grazie al Nafta queste imprese Usa esportano massicciamente verso la Tigre Azteca.
Lo scopo originale di Nafta, tuttavia, non è stato solo favorire gli scambi tra Stati Uniti, Messico e Canada, ma anche fornire incentivi per mantenere i posti di lavoro delocalizzati nel continente, invece di mandarli in regioni remote.
Prima che il Nafta entrasse in vigore nel 1994, il Messico vendeva agli Usa 39 miliardi di dollari di beni materiali, una cifra salita a 290 miliardi di dollari nel 2014 (con il beneficio extra per gli Stati Uniti di un surplus di 182 miliardi di dollari che Trump non ha mai menzionato pubblicamente).
In Messico i produttori hanno beneficiato di questo export (anche se ben il 40% dei materiali delle esportazioni messicane proviene dagli Usa, stando ai dati del Mexico Institute del Wilson Center), nonché dai nuovi posti di lavoro creati dalle produzioni delocalizzate (la cui qualità è spesso criticata e per valide ragioni, per esempio, nelle maquilas). Molte produzioni erano state spostate dalla Cina.
L’export del Nafta si è aggiunto a quello tradizionale di agricoltura e di materie prime. Complessivamente, le esportazioni messicane verso gli USA sono cresciute da prima del Nafta del 638%.
L’impatto economico negativo di una revisione del Trattato come annunciata da Trump sarebbe enorme, già solo perché offuscherebbe le prospettive economiche generando instabilità e mettendo una zavorra a investimenti e nuove attività; per non parlare dei danni macroeconomici di un peso fortemente svalutato.
Lo stesso meccanismo, questa volta in termini di sofferenza sociale, vale per la promessa di Trump di deportare qualche milione di messicani illegali.
Per quanto riguarda il “grande, grande muro“, la proposta di Trump per fermarli, semplicemente è impossibile da costruire. Nei quasi 3000 km attraverserebbe proprietà private e statali: giardini di case e terreni coltivati, parchi nazionali, campi da golf, torrenti, fiumi (che si prosciugherebbero) e la madre di tutti i fiumi, il Rio Grande.
I sostenitori di Trump hanno creduto possibile la costruzione di un muro in acciaio, tondini e calcestruzzo alto sei metri e “profondo sotto terra altri due in un letto di cemento”, anche perché il futuro presidente non hai mai parlato nel dettaglio — come non l’ha fatto per alcuna delle sue altre proposte — dell’incubo che sarebbe espropriare proprietà private, rinegoziare il Trattato Messico-USA sul Confine e trovare i fondi per pagarlo, visto che diversi ex e attuali presidenti messicani hanno dichiarato che “non ci pensano proprio a pagare per quel c*** di muro”).
Le dinamiche politiche in Messico sono tutt’altro che stabili e ideali. Donald Trump alla Casa Bianca esacerberà i conflitti, oltre ad assestare un terribile colpo a una economia che pur in modo disuguale cresceva in maniera sostenuta. Il colpo è duro anche per la fragile stabilità sociale del Paese e per i tanti messicani che speravano in una vita migliore a nord e sud del Rio Grande.
C’è un rovescio della medaglia per il Messico: se Trump imporrà, come promesso, dazi sulle materie prime importate, i produttori ed esportatori mondiali faranno molto meglio se trasferiranno le loro attività in toto a sud del confine.
“Gli Stati Uniti hanno eletto uno xenofobo e un bugiardo”, “Gli Stati Uniti hanno votato per il muro e per le bugie di Donald Trump”: sono alcuni titoli di giornali messicani la mattina dopo la materializzazione del peggior scenario per il Messico. E non sono prime pagine di giornali di sinistra, ma quelle dei principali quotidiani economici.