I dolori del giovane Pena Nieto
Da quando è arrivato alla Casa Bianca Donald Trump non ha ancora preso misure drastiche contro i cittadini messicani, pur avendoli definiti più volte “stupratori” e “trafficanti di droga”, e avendo promesso di deportarli in massa e di fermarne l’immigrazione verso gli USA. Tuttavia, dal giorno dell’elezione di The Donald c’è un messicano in particolare che si trova in forti difficoltà: il presidente Enrique Peña Nieto.

Da quando è arrivato alla Casa Bianca Donald Trump non ha ancora preso misure drastiche contro i cittadini messicani, pur avendoli definiti più volte “stupratori” e “trafficanti di droga”, e avendo promesso di deportarli in massa e di fermarne l’immigrazione verso gli USA. Tuttavia, dal giorno dell’elezione di The Donald c’è un messicano in particolare che si trova in forti difficoltà: il presidente Enrique Peña Nieto.
La vittoria di Trump ha messo Peña Nieto al centro di una tempesta politica che non accenna a placarsi. Con una popolarità al 12%, una guerra contro il narcotraffico che non riesce a vincere, circondato da scandali di corruzione che hanno coinvolto la stessa moglie, e con un’economia che mostra segnali di affaticamento, il presidente messicano deve affrontare l’ulteriore pressione degli annunci al napalm dell’omologo di Washington, che parla apertamente di uscita dal NAFTA (North American Free Trade Agreement) e costruzione del muro al confine (a spese del Messico). Nel caso dovessero avverarsi, il Messico piomberebbe nel caos sociale, dato che l’80% delle esportazioni sono dirette verso gli USA e il tasso di disoccupazione è tenuto artificialmente basso grazie all’emigrazione massiccia verso nord. Se dovessero alzarsi barriere alla frontiera per merci e forza lavoro, le fabbriche in Messico chiuderebbero quasi immediatamente e il numero dei cittadini disoccupati andrebbe alle stelle.
Lo shock esterno che il Messico rischia di subire nei prossimi mesi è talmente violento che, non a caso, la sera stessa in cui Trump ha vinto le elezioni, l’8 novembre, il peso si è deprezzato di oltre il 13% nei confronti del dollaro. Un tonfo che segue la perdita del 10% accumulata durante il periodo di campagna elettorale. Il giorno dopo la Borsa Valori di Città del Messico ha perso il 3,18% e grandi banche come Citibank, Banorte e JP Morgan hanno tagliato le prospettive di crescita del PIL dal 2,3% all’1,1%.
Nondimeno, le risposte date da Peña Nieto ai propositi di Trump sono apparse fragili e poco decise. Il messaggio televisivo in cui ha detto chiaramente che “il Messico non pagherà per il muro” non ha convinto i suoi concittadini. Ecco perché per cercare di riconquistare l’appoggio popolare il presidente messicano si è rifiutato di partecipare alla riunione programmata alla Casa Bianca con Trump.
Un gesto che però non ha fatto dimenticare ai messicani l’enormità della gaffe commessa da Peña Nieto durante la campagna elettorale americana, ovvero l’invito all’allora candidato repubblicano Trump a visitare il Messico. Una mossa pensata per cercare di instaurare un dialogo che prevenisse la furia trumpista nei confronti degli investimenti di società statunitensi in Messico e verso l’ingresso di immigrati negli Stati Uniti. Ma il cui unico risultato concreto è stato scatenare un’ondata di indignazione popolare.
La conferenza stampa successiva all’incontro è stata una vera e propria umiliazione per Peña Nieto, ripreso di fianco a Trump durante la conferenza stampa mentre quest’ultimo dichiarava pubblicamente che gli Stati Uniti avrebbero chiesto al Messico di pagare il muro. E Peña Nieto non ha nemmeno contestato immediatamente l’affermazione. Un affronto in piena regola per i messicani, che sono scesi in piazza in massa chiedendo le dimissioni del loro presidente.
Gasolinazo
Tuttavia, Trump si inserisce in un contesto politico già molto difficile per Peña Nieto, con una progressiva perdita di popolarità che si trascina da anni. L’ultimo episodio riguarda il gasolinazo: l’aumento del 20% dei prezzi del carburante che ha provocato saccheggi e scontri per le strade, lasciando sull’asfalto sei morti e provocando oltre mille arresti. Un aggiustamento dei prezzi resosi necessario sia per l’aumento delle quotazioni internazionali del greggio, sia per il fallimento della riforma energetica voluta dal governo e che non ha portato i benefici sperati alla popolazione.
Anche in questo caso i messicani si sono indignati non tanto per gli aumenti, ma per la reazione debole e irresoluta del loro presidente. Durante un comunicato televisivo ufficiale, cercando di mostrare fermezza, Peña Nieto ha dichiarato che i problemi del Paese sono di natura “esterna”, che un aumento di tali proporzioni della benzina era “l’unica alternativa per non tagliare piani sociali”, e che la colpa di questa situazione ricade sull’eredità lasciata dai governi precedenti. Dimenticandosi però di ricordare che lui è in carica ormai da oltre quattro anni e che il costo dei programmi sociali incide solo in percentuali risibili sulla spesa pubblica messicana. E concludendo il suo messaggio con un sconcertante passaggio in cui chiede ai suoi connazionali: “Tu cosa avresti fatto al mio posto?”. A quel punto la satira e le proteste sono diventate un passaggio quasi obbligato.
In realtà il governo di Peña Nieto non ha avuto vita facile sin dalla sua elezione nel 2012. Il giovane avvocato e allora governatore dello Stato del Messico (il Distretto Federale attorno alla capitale messicana), non è mai riuscito a compattare le fila del suo stesso, lo storico PRI (Partido Revolucionario Institucional), che aveva governato il paese per oltre 70 anni fino a dover cedere il posto ai conservatori del PAN (Partido Alleanza nazionale) nel 2000. Parte del PRI avrebbe preferito un nome più legato alla vecchia guardia. Un’altra fazione invece pensava che quel politico quarantenne dal forte appeal mediatico, con una fama di pragmatico e un discorso nazionalista moderato pro-mercato sarebbe stata la miglior scelta.
Vinse il gruppo di sostenitori di Peña Nieto. Ma la prima tegola arrivò quasi subito: addirittura prima del voto il quotidiano britannico “The Guardian” pubblicò una denuncia sugli accordi tra il colosso dei media Televisa (proprietario di 4 dei 6 canali pubblici del Messico) e funzionari del PRI per mettere in atto una campagna stampa a favore di Peña Nieto. Una violazione delle regole elettorali che scatenò le prime marce di protesta quotidiane organizzate dal movimento giovanile “#yosoy132“.
Tuttavia, il voto del Messico rurale e delle regioni interne dove PRI non ha mai perso la sua influenza permise la vittoria di Peña Nieto. In quelle aree prevalse l’idea che il nuovo presidente potesse presentare una soluzione alternativa al problema della violenza tra i cartelli della droga. L’opinione diffusa tra la popolazione delle zone rurali era che la guerra al narcotraffico del PAN, che aveva militarizzato le operazioni anti-narcos, era la responsabile dei circa 60 mia morti registrati ufficialmente nel Paese. Ci si aspettava quindi che il PRI adottasse un approccio “tradizionale” al problema, ovvero accordarsi ufficiosamente con le milizie locali e chiudere gli occhi sulle attività dei trafficanti, in modo che almeno le morti di civili innocenti e le estorsioni ai danni di campesinos venissero ridotte.
Benché vittorioso alle urne, il margine con cui Peña Nieto conquistò la presidenza (38,15% contro il 31.64% del candidato di sinistra López Obrador) mise subito in chiaro che non avrebbe avuto vita facile.
In un primo momento il presidente poté contare con un ampio sostegno internazionale, grazie soprattutto alle promesse di intensificare le relazioni commerciali bilaterali con gli USA e di varare una riforma energetica per privatizzare parte del settore petrolifero, aprendolo ad investimenti diretti esteri. Peña Nieto divenne subito copertina di “Time”, che titolava sotto la sua immagine, “Saving México” (salvando il Messico).
Anche opposizioni sembravano appoggiare le sue prime misure di governo, accettando di formare il “Pacto por México“, un’alleanza di partiti per garantire una base politica al Congresso, dove il PRI non aveva la maggioranza, e permettere di riformare la Costituzione.
La luna di miele, tuttavia, durò poco
La violenza provocata dalla lotta contro i cartelli della droga era già in uno stadio di brutalità così avanzato che le misure volute da Peña Nieto non ottennero alcun risultato. Ad esempio, la creazione di una “gendarmeria nazionale” composta da forze armate regionali, che conoscesse meglio locali e rotte di transito dei trafficanti di droga, così come la legalizzazione dei “gruppi di autodifesa”, milizie paramilitari di cittadini comuni, non hanno fatto altro che aumentare il numero delle vittime. E ridurre la popolarità del presidente.
Peña Nieto cambiò strategia, concentrandosi sull’arresto di boss come ad esempio “La Tuta”, capo dei “Caballeros Templarios”, o il leggendario “El Chapo” del cartello di Sinaloa. Ma per quanto cinematografiche, queste detenzioni non hanno avuto alcun impatto né sul traffico di droga né sulla violenza. I cartelli sono stati più veloci a riorganizzarsi, diluendo le loro operazioni in sottostrutture in grado di cambiare rapidamente nome e posizione, sfuggendo così alle forze di sicurezza messicane.
I dati mostrano una chiara sconfitta del governo. La guerra alla droga oggi ha provocato la morte di oltre 80 mila persone. Gli omicidi legati al narcotraffico sono aumentati del 18% e il traffico verso gli Stati Uniti non solo è aumentato come si é diversificato. Oggi il Messico non esporta solo cocaina, ma anche eroina e addirittura farmaci la cui vendita è regolata negli USA, ma che sbarcano clandestinamente in Messico provenienti dalla Cina, per poi passare il Rio Grande.
Nel settembre 2014, un ulteriore colpo alla popolarità di Peña Nieto. Il sequestro (e il probabile omicidio) di 43 studenti di una scuola rurale di Ayotzinapa, nello Stato di Guerrero (uno dei più poveri del Paese). Una tragedia che ha guadagnato un’immensa proiezione internazionale, direttamente proporzionale alla riduzione al consenso verso il presidente. Soprattutto perché le prove trovate fin’ora hanno portato lo stesso governo ad ammettere che il sequestro è stato commesso con il consenso delle autorità e della polizia locale, sebbene eseguiti da trafficanti di droga. Anche in questo caso, moltitudini di persone sono scese in piazza protestando e manifesti con i volti dei ragazzi scomparsi possono ancora oggi essere visto appesi in vari centri urbani, come nel Paseo de la Reforma, la strada principale di Città del Messico. Un evento che ha mostrato ancora una volta la vera radice del problema del narcotraffico in Messico: il fatto che i narcos sono dietro le quinte delle campagne elettorali e che, quindi, mantengono una forte influenza sulle azioni dei governi regionali. Una questione che, evidentemente, Peña Nieto non è stato in grado di affrontare.
Economia in difficoltà e corruzione senza controllo
Eppure in economia Peña Nieto aveva iniziato bene, con il PIL crescendo del 4% e un investimento importante in un polo tecnologico nel centro del Paese, tra le regioni di Aguas Calientes, Querétaro, Nuevo León e Puebla, dove sono state costruite fabbriche per la produzione di automobili, aeromobili e altri prodotti. La maggior parte di loro filiali di aziende nordamericane, come General Motors, Ford e Chrysler. La sensazione era che il Messico stesse entrando definitivamente nel club dei Paesi ricchi. Tuttavia, questo ecosistema produttivo che però vive in sospeso dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, con alcune di queste aziende che hanno già deciso di lasciare il Paese, mentre altre sono pronte a farlo. Se gli USA uscissero dal NAFTA, per queste regioni sarebbe la fine. Tornerebbero nel sottosviluppo che hanno conosciuto fino a pochi anni fa. E anche per questo motivo il malcontento tra la popolazione é in aumento.
Ma è la corruzione che sta minando in profondità la popolarità di Peña Nieto. Diversi ministri del suo governo sono stati accusati di acquistare, a prezzi stracciati, proprietà immobiliari di lusso attraverso società che hanno beneficiato di appalti pubblici. Uno scandalo che ha coinvolto addirittura la stessa moglie del presidente, l’attrice Angelica Rivera. In un video diventato virale su internet, e che ha provocato un’ondata di sdegno nazionale, la Rivera ha spiegato che aveva potuto acquistare la “Casa Blanca” (ironia del destino nel nome), una magione da 7 milioni di dollari, grazie ai soldi guadagnati attraverso il suo lavoro in televisione. Peccato che i messicani sono perfettamente consci che una cifra del genere è impossibile da accumulare in una carriera da attrice di seconda categoria di telenovelas della Televisa. Lo stesso Peña Nieto si è dovuto scusare pubblicamente, promettendo misure anti-corruzione.
Il culmine degli scandali ha però avuto luogo lo scorso anno, quando il governatore di Veracruz, Javier Duarte, anche lui del PRI e vicino al presidente, pochi mesi prima di completare il suo mandato è stato convocato in tribunale per rispondere alle accuse di appropriazione indebita di fondi pubblici, ed invece di presentarsi davanti ai giudici é semplicemente scomparso. La popolazione di Veracruz ancora oggi fa battute, distribuendo per le strade cartelli in stile Far West con scritto “Se busca Duarte, vivo o muerto”. Uno scandalo che ha ulteriormente intaccato la già debole immagine di Peña Nieto.
Restano solo altri due anni di mandato al presidente messicano, un periodo che oggi sembra un’eternità lastricata di sofferenza politica. All’orizzonte immediato invece appare l’infausto compito di trattare con Trump e contenere il disagio sociale provocato da riforme fallite e dall’aumento della violenza. Per quanto il nuovo inquilino della Casa Bianca possa risultargli sgradito, Peña Nieto non potrà rifiutarsi per sempre di incontrarlo. Ma con una reputazione così logorata da scandali e errori di governo, e con l’atteggiamento tentennante mostrato fin’ora, il presidente messicano difficilmente riuscirà a farsi valere in un ipotetico tavolo negoziale con un tycoon dell’edilizia abituato a trattare con mastini del settore.
Nel frattempo, inizia la corsa elettorale del 2018, nella quale il PRI ha perso terreno nei sondaggi mentre López Obrador, con il suo profilo populista e nazionalista di sinistra, appare con un ampio margine davanti agli altri candidati. Dopo aver perso due elezioni in parte a causa dei suoi toni troppo radicali, Obrador inizia a sembrare appropriato per tempi difficili come questi. Ma vista la situazione incandescente, non è improbabile che prima delle elezioni spunti un candidato populista che faccia leva sul risentimento anti-Trump della popolazione messicana e soffi sul tradizionale odio anti-yankee per farsi eleggere. A quel punto il Messico si troeverebbe una nemesi trumpista al potere, pronto a rispondere colpo su colpo alle provocazioni di Washington. E allora sì che il Rio Grande potrebbe prendere definitivamente fuoco.
Da quando è arrivato alla Casa Bianca Donald Trump non ha ancora preso misure drastiche contro i cittadini messicani, pur avendoli definiti più volte “stupratori” e “trafficanti di droga”, e avendo promesso di deportarli in massa e di fermarne l’immigrazione verso gli USA. Tuttavia, dal giorno dell’elezione di The Donald c’è un messicano in particolare che si trova in forti difficoltà: il presidente Enrique Peña Nieto.
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