Il Messico punta a rafforzare la sua proiezione globale per compensare l’isolazionismo di Trump. Tra i partner commerciali più promettenti spicca l’Europa. Ma il rilancio del libero scambio intercontinentale è bloccato da una guerra alimentare. Il casus belli è Dop e si chiama manchego
Da quando Donald Trump si è insediato nello Studio Ovale della Casa Bianca, il Messico teme la ritirata isolazionista degli Usa. Per contrastarla l’amministrazione Peña Nieto sta provando a rafforzare la proiezione globale del Paese. Ma come accadde l’anno scorso, quando tonno e zucchero complicarono le già delicate relazioni economiche con gli Stati Uniti, gli accenni di una guerra alimentare intralciano anche il commercio intercontinentale. Questa volta la linea del fronte passa da Bruxelles. E il casus belli è un formaggio.
Da giugno 2016 Messico ed Unione europea sono impegnati nei negoziati per l’aggiornamento dell’Accordo globale, il trattato di libero scambio entrato in vigore nel 2000 che ha permesso al commercio bilaterale di raggiungere i 53 miliardi di euro nel 2016 (dieci anni prima ne valeva 29). Dopo gli Stati Uniti, l’Unione europea – presa nella sua interezza – rappresenta per il Messico sia il più grande mercato per l’export, sia la principale fonte di investimenti diretti esteri.
Nel 2017 il Messico ha però inviato nel continente europeo meno del 6% delle sue esportazioni, contro l’88% che è stato spedito invece in America, di cui ben l’80% solo negli Stati Uniti. Ma oggi, alla luce delle continue minacce di Donald Trump, per il Messico diversificare gli scambi commerciali non costituisce più soltanto un’opzione, ma una necessità: qualora Washington dovesse davvero ritirarsi dal Nafta, come Trump ripete ormai da tempo, il Messico si ritroverebbe impossibilitato ad accedere liberamente ad un mercato fondamentale per la sua economia.
Il progetto di diversificazione commerciale, per quanto precedente all’insediamento di Trump e figlio di una più vasta ambizione globale, ha senz’altro ricevuto una brusca accelerazione nell’ultimo anno e passa per tre macroaree: America del Sud (Brasile e Argentina), Asia (Cina e Pacifico, con il recente impegno a rifondare il Tpp) e, per l’appunto e soprattutto, Europa.
Sul finire di dicembre sembrava che i negoziati tra Unione europea e Messico per il rinnovo del trattato di libero scambio potessero concludersi prima di Capodanno. Non è stato così: il commissario europeo per il commercio Cecilia Malmström ha dichiarato che le due parti erano sì «molto vicine» ad un’intesa ma che non l’avevano ancora raggiunta. Mancava un accordo sui marchi di origine utilizzati dall’Unione europea per proteggere i propri prodotti alimentari (Dop e Igp, ad esempio). Nello specifico, il motivo principale di frizione riguardava i formaggi.
Proprio come già successo durante i negoziati per il Ttip con gli Stati Uniti, Bruxelles non vuole che il Messico metta in commercio dei formaggi che abbiano nomi europei come «parmigiano», «mozzarella» o «feta». Quelle che per la Ue sono denominazioni protette da salvaguardare, per il Messico non sono però altro che nomi generici che indicano ai consumatori la varietà del formaggio o del latticino che stanno per acquistare. Ma l’Europa non sembra avere intenzione di scendere a compromessi su questo punto.
In particolare, la disputa tra le due parti interessa soprattutto un particolare tipo di formaggio spagnolo, il manchego. Si tratta di un formaggio fatto con latte di pecora di razza manchega, prodotto nella comunità di Castiglia-La Mancia e protetto dal marchio Dop. Esiste però anche un manchego messicano che – nonostante l’omonimia non insolita in una ex-colonia – differisce in tutto da quello spagnolo: è fatto con latte di mucca, ha un sapore più delicato, e viene utilizzato per farcire le tortillas. È anche più economico – costa meno della metà di quello spagnolo – e può contare su un mercato domestico di cinque miliardi di pesos, quasi il 15% del valore totale del settore caseario messicano.
Il Messico potrebbe accettare senza troppe resistenze di rinominare il proprio parmigiano ma non ha intenzione di farlo con un prodotto così economicamente rilevante come il manchego che, per di più, considera tipico. E assicura che i propri consumatori sono assolutamente in grado di riconoscere la differenza tra il manchego messicano e quello spagnolo. Chi invece potrebbe non essere capace di cogliere tale distinzione sono gli statunitensi. Come riporta il Guardian, l’omonimia potrebbe generare confusione negli Stati Uniti e indurre gli acquirenti a preferire il più economico manchego messicano a quello spagnolo. A danno, ovviamente, dei produttori europei.
La “guerra del manchego” potrebbe far rallentare anche di parecchio i negoziati per l’aggiornamento del trattato di libero scambio. Si tratta di un accordo importante non solo per ragioni commerciali ma anche strategiche e geopolitiche, tanto per l’Unione europea quanto per il Messico. A quest’ultimo servirà per attutire l’eventuale impatto della fine del Nafta, oltre che per accentuare la propria proiezione globale. A Bruxelles invece permetterà, dopo il recente successo delle trattative con il Giappone, di ribadire la propria apertura nei confronti dei grandi progetti di portata internazionale e di riempire ancora di più «il vuoto lasciato dagli Stati Uniti», come ha detto l’eurodeputata Alessia Mosca a Politico.
@marcodellaguzzo
Il Messico punta a rafforzare la sua proiezione globale per compensare l’isolazionismo di Trump. Tra i partner commerciali più promettenti spicca l’Europa. Ma il rilancio del libero scambio intercontinentale è bloccato da una guerra alimentare. Il casus belli è Dop e si chiama manchego