Per quanto da sempre costituiscano una barriera naturale, le Alpi sono state e rimangono un punto di passaggio fondamentale tra il Mediterraneo e l’Europa. Lungo le vallate, superando i passi o più di recente sfruttando tunnel e trafori, sulle Alpi sono transitati eserciti di conquista e invasori, avventurieri, commercianti e migranti. Per portare qualche esempio, basta pensare ai decenni della diaspora italiana in Germania, con almeno tre milioni di aspiranti lavoratori per lo più saliti attraverso il passo del Brennero.
Poi la Svizzera, dove più di quattro milioni di operai dalla Penisola hanno ripercorso la via di Annibale, cercando e trovando alternative alla povertà patita nei luoghi di origine. Quindi la Francia e seppur con numeri diversi, anche il Belgio, Paesi raggiunti via terra, sempre doppiando la catena alpina.
Oggi, nell’epoca dei voli super economici, della vita vissuta in tempo reale sugli schermi dei telefonini costantemente connessi, l’orografia alpina resta lì, immobile a fungere da ostacolo per gli altri migranti che dall’Italia tentano la via europea.
Sono stranieri, moltissimi gli africani di ogni nazionalità. Qualcuno si lascia alle spalle violenze, terrorismo e guerre, altri cercano soluzioni alla miseria e ai cambiamenti climatici, molti fuggono dalla coesistenza di tutti questi fattori. Si spostano con modalità simili, esponendosi ai medesimi pericoli: prima affrontano la sete, la fame e le violenze dei deserti africani, seguono i patimenti nel purgatorio libico, poi la deriva tra le onde del Mediterraneo, infine il gelo dei passi alpini.
Ed è proprio qui, all’ombra delle nostre montagne che l’esodo incontra l’ultimo ostacolo ambientale (dopo mare e deserti), con migliaia di uomini, donne e bambini che forzano il passaggio verso nord.
Accade un po’ ovunque. Nelle Alpi “orientali”, dove i migranti afgani e pachistani reduci della rotta balcanica e arenati perlopiù nel nordest d’Italia, assistono al passaggio di chi proviene in barca dalla Libia, nel tentativo di raggiungere la Germania doppiando il Brennero e l’Austria. Lo stesso accade a ovest, a Ventimiglia, nel punto in cui le Alpi Marittime si innalzano dal mar Ligure inaugurando la catena alpina. È qui che per anni si è concentrata buona parte dei tentativi di passaggio in Francia, fino all’inasprimento dei controlli, e al blocco totale dei passaggi. L’alternativa alla principale “Via Francese” è arrivata attraverso un altro sbocco alpino, più a nord, a partire da Bardonecchia.
«La situazione si è intensificata lo scorso dicembre con un numero di arrivi crescente» spiega il dottor Paolo Narcisi, presidente di Rainbow for Africa, onlus che da anni opera in Africa, Grecia e Italia, fornendo assistenza sanitaria ai migranti e organizzando corsi di formazione professionale di personale in loco. Al telefono descrive quanto accade in alta val di Susa, dove Rainbow, in collaborazione con i comuni di Bardonecchia e di Oulx, gestisce un presidio sanitario in cui offre assistenza e riparo temporaneo ai migranti giunti dai centri di accoglienza del sud Italia.
Da dicembre a oggi più di mille migranti hanno ricevuto assistenza negli spazi allestiti fuori dalla stazione ferroviaria di Bardonecchia. «Sono quasi esclusivamente africani, arrivano con quello che hanno, in pieno inverno senza abbigliamento adeguato, senza alcuna conoscenza di montagna e si avviano verso la Francia», spiega Narcisi.
La marcia attraverso la Val di Susa, sede di alcune gare dei giochi olimpici invernali del 2006, si addentra in un ambiente alpino severo, attraverso i 1.854 metri del colle del Monginevro e il colle della Scala, a 1.969 metri. Più di 30 chilometri di marcia, per buona parte a quote medio-alte, con la neve e il gelo, esponendosi al pericolo di valanghe.
Questo vale anche per i più piccoli. «L’altra notte abbiamo soccorso due bambini in condizioni di ipotermia. Li abbiamo riscaldati e nutriti» continua il medico, sottolineando come dall’intensificazione dei passaggi a dicembre, non siano stati riscontrati decessi dovuti a freddo e valanghe, anche grazie agli interventi del Soccorso alpino, intervenuto più volte per portare in salvo chi era rimasto bloccato dalla neve.
Il lavoro di accoglienza non riguarda solo le persone di passaggio, dirette in Francia, ma anche i migranti respinti al confine. Per la maggior parte di chi riesce ad arrivare dall’altra parte, infatti, l’esodo si arena nelle locali stazioni di polizia. «Quelli che passano vengono intercettati dagli agenti francesi, caricati in un pulmino e tutte le notti sono trasportati davanti alla stazione ferroviaria di Bardonecchia, nel piazzale dove si trova la nostra clinica».
Il referente di Rainbow sottolinea il fatto che non viene eseguita alcuna vera selezione al momento del fermo «basta che il colore della pelle non abbia la tonalità giusta, o che qualcuno non abbia abbastanza soldi in tasca. Sono state respinte persone con i documenti assolutamente a posto ma che non avevano almeno 300 euro in tasca e una prenotazione alberghiera».
Nemmeno le condizioni di salute sono un’attenuante, così come accaduto il 9 marzo, quando una 31enne nigeriana incinta e con un grave linfoma è stata intercettata dai gendarmi d’oltralpe e respinta assieme al marito. Beauty, questo il suo nome, ormai al settimo mese di gravidanza, non ha ricevuto alcuna assistenza sanitaria in Francia sebbene manifestasse evidenti sintomi di malessere. È invece stata trasferita sul piazzale della stazione di Bardonecchia, con il solito pulmino.
«Lei aveva un permesso di soggiorno italiano scaduto ed era in attesa del rinnovo, quindi in quel momento non aveva i documenti completamente in regola, pertanto rientrava nella casistica per cui i francesi respingono», continua il dottor Narcisi, cui abbiamo chiesto di ricostruire la vicenda. Diversa la situazione di Destiny, il marito, anche lui nigeriano, di 33 anni, fuggito dal Paese di origine per sottrarsi alla minaccia di Boko Haram (gruppo terroristico legato all’Isis), che da poco aveva ricevuto un diniego alla richiesta di asilo in Italia.
«Dopo essere rimasta incinta la ragazza aveva iniziato a stare male, quindi lei e il marito avevano deciso di raggiungere i parenti in Francia per farsi curare lì». All’epoca la futura mamma pensava a una gravidanza difficile. Non sapeva di quel tumore, dovuto a una immunodeficienza acquisita con una trasfusione in Africa, ricevuta come cura per un’infezione malarica.
«Era sempre più affaticata, aveva forti dolori addominali con difficoltà respiratorie. Hanno preso un bus a basso costo diretto in Francia, ma sono stati fatti scendere e respinti dalla polizia francese». Il viaggio dei due coniugi nigeriani è proseguito nel pulmino della gendarmerie francese, e sono stati fatti scendere a Bardonecchia in piena notte, con la neve e la temperatura di 8 gradi sotto zero.
«Sono stati scaricati e il pulmino è ripartito» continua Narcisi «nessuno è venuto ad avvisare il nostro medico o a chiedere aiuto. Lei stava molto male, si è accasciata nella neve perché non riusciva a respirare. Il mediatore culturale del comune si è accorto per caso della situazione così ha chiamato il nostro medico». La gravità delle condizioni di salute è parsa evidente, pertanto Beauty è stata portata all’ospedale universitario di Torino.
«Le dimensioni del tumore hanno reso subito chiaro che la signora non aveva speranza di sopravvivere, così, in accordo con lei, è stata curata in modo da portare avanti la gravidanza il più a lungo possibile e permettere al bambino di sopravvivere». Arrivati alla 28esima settimana, quando la migrante era ormai in fin di vita è stato eseguito un parto cesareo che ha permesso al piccolo Israel di venire comunque al mondo malgrado il peso di 700 grammi, e di sopravvivere alla madre, morta poche ore dopo.
«Nonostante la Procura di Torino abbia aperto un’inchiesta sull’episodio, io non credo che il poliziotto francese abbia commesso un reato, per questo probabilmente non sarà punito. Ciò che è grave è l’indifferenza. Non si può scaricare sulla neve una persona che sta male e andarsene, senza farla soccorrere». Se non fosse stato per il casuale passaggio del mediatore culturale di Bardonecchia, secondo il medico sarebbe stata la fine anche per il bambino.
Così non è stato, e all’indomani della nascita, avvenuta a inizio marzo, il piccolo Israel è stato oggetto di molte forme di solidarietà, estese anche al padre, che grazie alla laurea conseguita nel Paese di origine ha ricevuto alcune offerte di lavoro, mai come ora vitali. Una forma di solidarietà che ha interessato moltissimi italiani, al pari di un numero consistente di francesi, i quali, malgrado il rigore e la comprovata noncuranza della polizia d’oltralpe, dimostrano da sempre una profonda solidarietà verso i migranti in arrivo dai valichi innevati.
L’ultimo episodio risale al 10 marzo, quando Benoit Duclos, guida alpina francese, ha prestato soccorso a una giovane nigeriana all’ottavo mese di gravidanza. L’uomo stava transitando in auto nei pressi del passo del Monginevro, quando ha incrociato la donna che avanzava a fatica dopo la lunga marcia nella neve, iniziata a Bardonecchia. Con lei c’erano il marito e i figli di due e quattro anni. Viste le condizioni della migrante e la presenza dei bambini, la guida ha accostato l’auto offrendo un passaggio alla famiglia, ma poco dopo è stata fermata per un controllo dalla polizia francese.
Duclos è stato condotto in caserma e dopo un interrogatorio, malgrado abbia spiegato le motivazioni umanitarie del suo gesto, è stato denunciato per favoreggiamento dell’immigrazione, reato che in caso di colpevolezza potrebbe comportare fino a cinque anni di carcere. Pochi giorni dopo il fermo, la guida alpina ha chiarito in un’intervista (rilasciata a La Presse e pubblicato sul Corriere) le sue intenzioni, sottolineando come «prestare soccorso non è stata una scelta ma un dovere. Se mi ritrovassi in quella situazione li aiuterei di nuovo perché non si può restare indifferente davanti a chi ha bisogno d’aiuto».
@EmaConfortin