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Migranti in Grecia: nei campi governativi fallisce l’accoglienza europea


L’accampamento sorge ai margini di un vecchio aeroporto, a cinque minuti di marcia dal minuscolo villaggio da cui prende nome, Nea Kavala. Oltre la recinzione passa l’unica striscia di asfalto diretta alla vicina città di Polikastro, estesa sulla vasta pianura agricola oltre la E75 che collega Salonicco al confine macedone e alla conca di Idomeni, sgomberata il 24 maggio da tende e occupanti. Il disegno del governo Tsipras in materia di migranti ha superato la fase dell’esposizione totale vista nei primi mesi dell’anno, quando Idomeni costituiva una sorta di palcoscenico dal quale colpire l’opinione pubblica internazionale diffondendo via satellite la disperazione dei diecimila arenati tra fango e filo spinato.

L’accampamento sorge ai margini di un vecchio aeroporto, a cinque minuti di marcia dal minuscolo villaggio da cui prende nome, Nea Kavala. Oltre la recinzione passa l’unica striscia di asfalto diretta alla vicina città di Polikastro, estesa sulla vasta pianura agricola oltre la E75 che collega Salonicco al confine macedone e alla conca di Idomeni, sgomberata il 24 maggio da tende e occupanti. Il disegno del governo Tsipras in materia di migranti ha superato la fase dell’esposizione totale vista nei primi mesi dell’anno, quando Idomeni costituiva una sorta di palcoscenico dal quale colpire l’opinione pubblica internazionale diffondendo via satellite la disperazione dei diecimila arenati tra fango e filo spinato.

Poi è giunto il deal dell’Unione Europea con Ankara, il 18 marzo (in vigore il 20 marzo), seguito dalla drastica riduzione degli attraversamenti sull’Egeo e alla chiusura definitiva della via dei Balcani. A quel punto Atene ha dato avvio alla fase dell’accentramento e della censura, ma per arrivare allo sgombero delle tendopoli ‘indipendenti’ è stato necessario ancora tempo. Servivano nuovi campi, realizzati presto e male usando principalmente le risorse di un paese già sfiancato da sette anni di austerità, incapace di gestire la crisi migranti malgrado i numeri tutto sommato esigui, 50 mila persone, e l’inconsistente supporto tecnico giunto dall’UE.
Oggi, grazie soprattutto alle testimonianze dirette dei rifugiati, sta emergendo la profonda inadeguatezza delle strutture di accoglienza governative allestite nella Grecia settentrionale. Sono campi monitorati da UNHCR, ma sorvegliati giorno e notte da polizia ed esercito, pertanto “non accessibili senza l’autorizzazione del governo”, si sbrigano a dire i soldati in mimetica al cancello di ingresso a Nea Kavala. “Al momento le nuove strutture nel nord della Grecia non sono visitabili” replica l’ufficio stampa governativo ad Atene un’ora e mezzo dopo aver ricevuto la richiesta formale per il rilascio del pass. Il messaggio è chiaro, accesso negato sistematicamente alle organizzazioni non registrate presso il ministero dell’Interno e ai giornalisti. Cautela avuta anche durante il recente sgombero degli accampamenti dell’hotel Hara e della stazione BP a Evzoni, seguiti da quello di Eko Camp a Polikastro, iniziato il 13 giugno di buon mattino, quando uomini e mezzi della polizia sono entrati nella più nota stazione di benzina greca. In meno di 48 ore, 31 autobus hanno trasferito 1.158 rifugiati nel campo di Vassilika, a sudest di Salonicco, il tutto lontano dagli sguardi di volontari e media, malgrado le operazioni si siano svolte senza particolari tensioni.
Alla vigilia delle deportazioni di Eko camp siamo riusciti ad avvicinarci a Nea Kavala, sollecitati dagli stessi abitanti della tendopoli in cui sono ospitati circa 4000 rifugiati, siriani e iracheni. Aggirando campi di grano e vigneti, sul lato sud dell’accampamento si notano giovani madri e bambini impegnati a staccare qualche grappolo d’uva malgrado i cartelli di divieto raffiguranti un teschio, affissi tra i filari nella vana speranza di evitare il saccheggio. Una contromisura poco efficace a spaventare chi è fuggito dagli orrori siriani. Qui, nel mezzo della desolata campagna greca centinaia di rifugiati fanno la spola tra i due campi, uno blindato dalle autorità, l’altro aperto e indipendente. In molti trascinano passeggini vuoti da riempire di frutta e verdure necessari a integrare i pasti distribuiti a Nea Kavala. “Il cibo è pessimo, da cestinare” spiega un distinto curdo siriano sui quaranta, disegnando i pensieri nell’aria usando enormi mani da contadino come fossero pennelli. Scompare qualche istante, tornando poi con una vaschetta bianca sotto vuoto contenente una misera porzione di lenticchie, identica a quelle rovesciate nel vicino cassonetto dei rifiuti, a decine. “Puzzano, sono immangiabili, avariate” assicura un ragazzo di Damasco, laureato in farmaceutica e diretto come gli altri a Eko camp. “La scorsa settimana cinquanta persone sono state colpite da diarrea a causa della carne, ma oltre a protestare non si può far nulla”. Le razioni distribuite al campo non bastano a garantire una dieta sana, pertanto chi ancora ha soldi da parte acquista alimenti freschi e carne in un supermercato vicino, gli altri si rivolgono ai volontari catalani che ogni giorno vanno e vengono da Salonicco con un furgone pieno di frutta, verdura e cibo in scatola distribuiti ai rifugiati nel parcheggio di Eko station. Servizio prezioso, interrotto con lo sgombero dell’accampamento.
A Nea Kavala scarseggia anche l’acqua potabile. “Forniscono un litro e mezzo ogni tre persone al giorno”, lamentano a più riprese i presenti. Poco o nulla considerando le temperature ormai prossime ai 30 gradi (mentre scriviamo già si avvicinano i 40), tende roventi e la carenza di zone d’ombra in cui ripararsi. A questo si aggiunge il Ramadan, che prevede astensione da cibo e bevande dall’alba al tramonto, pratica rispettata malgrado tutto, per tenere vivo il legame con le proprie origini, la propria cultura, cercando nel caos un barlume di normalità. “Nelle docce c’è solo acqua fredda, erogata a intermittenza” assicura un giovane curdo siriano indicando le centinaia di tende da campo marchiate UNHCR, posizionate a distanza regolare sulla distesa d’erba rinsecchita. Le aree libere sono cosparse di escrementi, “le toilette sono impraticabili”, assicurano. L’installazione delle case di tela spetta ai rifugiati, “ci forniscono il sacco contenente il materiale e spetta a noi montarle”. Appena scende il sole il campo piomba nell’oscurità. Eccezion fatta per una singola fila di lampioni giallognoli, non esiste altra fonte di luce artificiale, pertanto qualcuno si ingegna ‘rubando’ un po’ di energia dalla linea sospesa a 4 metri da terra attraverso un cavo trovato tra i rifiuti. “Così almeno riusciamo a ricaricare i telefonini” spiega “al campo non si riesce, i punti di ricarica sono troppo pochi”, condizione per cui in molti hanno accesso limitato al web, e a quei social che rappresentano l’unico contatto con parenti e amici disseminati in Turchia, Libano, Giordania o peggio nella bolgia siriana.
A Nea Kavala l’assistenza medica è garantita dalla croce rossa internazionale, un lavoro impagabile ma nelle ristrettezze della tendopoli mancano attrezzature adeguate per tutte le emergenze. “Mi sono rotto una mano qui al campo” racconta un giovane curdo siriano sventolando un paio di radiografie, “sono stato portato in ambulanza all’ospedale di Kilkis, lontano 30 chilometri, ma al ritorno ero solo, a piedi. Ho camminato 7 ore per tornare al campo!”. Buona parte degli ospiti di Nea Kavala è bloccata qui sin dalla fondazione, sei mesi fa, pertanto la frustrazione cresce alimentata dalle difficili condizioni di vita, sino ad esplodere come avvenuto a inizio giugno con la mobilitazione di 300 persone. Protesta conclusa contro gli scudi degli agenti in assetto anti sommossa, senza alcun cambiamento concreto eccezion fatta per la nuova scuola destinata ai più piccoli, definita da padri e madri “preziosa e funzionale”. Un piccolo segno di miglioramento, giunto in contemporanea all’avvio dell’atteso programma di pre-registrazione da 25 milioni di euro implementato da Atene assieme a UNHCR e all’Ufficio Europeo di Supporto per l’Asilo (Easo), operativo per luglio. Si tratta di un’integrazione al penoso sistema via Skype preesistente, passaggio obbligato per i ricollocamenti e accessibile solo ai rifugiati giunti in Grecia tra gennaio 2015 e il 20 marzo 2016, rigorosamente ospitati all’interno dei campi governativi. Malgrado le promesse e gli aiuti intermittenti, Atene sembra quanto mai sola, costretta a fronteggiare la propria emergenza migranti, per i quali la solidarietà europea continua a scontrarsi con i limiti di un sistema di accoglienza ancora inadeguato.
@emanuele_conf

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