Gli Houti, i ribelli sciiti che hanno occupato il parlamento yemenita una settimana fa e che presidiano ministeri e controlli di sicurezza, hanno appena dato tre giorni di tempo a tutti i partiti per mettersi d’accordo e risolvere la crisi del Paese.

Ovviamente, prendono tempo affinché venga risolta secondo quando loro stessi chiedono da mesi, contravvenendo ai punti su cui tutte le tribù e i gruppi settari erano d’accordo in Yemen secondo il documento prodotto dalla Conferenza per il Dialogo Nazionale: federalizzazione dello Stato in sei regioni autonome, disarmamento di tutti i gruppi politici che solitamente hanno milizie o bracci armati, accettazione delle condizioni imposte da possibili opponenti tribali nelle aree di contenzioso territoriale.
Probabilmente non si arriverà a nessun accordo; probabilmente il Nord del Paese andrà completamente nelle mani delle milizie sciite, con punta di massima crisi nel Marib, dove esercito regolare, tribù, Houti e Al Qaeda si contendono il 75% delle risorse energetiche (petrolio e gas) ancora inutilizzate nel Paese. Probabilmente il Sud, come chiede da anni, avrà tutto il diritto di separarsi dal governo centrale ed instaurare un altro Stato, con capitale Aden magari mantenendo il presidente appena dimissionario, Mansour Hadi che, nel frattempo, vuole assicurare per sé l’aviazione e per gli americani le basi navali sul Mar Rosso, dove sono di stanza i marines.
La crisi yemenita, comunque, non va letta né nella prospettiva di un conflitto settario, né in quella di un caos che nasce delle pretese degli attori locali che lavorano sullo scacchiere internazionale. La vicenda, anche nel contrasto al terrorismo, va letta in chiave tribale, tenendo bene a mente che, da queste parti, ciò che conta è, come nel gioco afgano del buzkashi, portare la capra alla meta, contro tutto e contro tutti. E che, come insegna lo stesso gioco, i vecchi nemici possono diventare nuovi amici e viceversa.
Facendosi guidare da questa lettura, molte cose appaiono più chiare, come sottolinea Adam Baron per Foreign Policy.
Primo: il modello transizionale Yemen, dalle cosiddette “primavere arabe” a una supposta e auspicata democrazia è stato fallimentare perché l’accordo che avrebbe dovuto portare ad elezioni nel febbraio del 2014 nasceva da negoziazioni tra il Congresso del partito generale del Popolo (GPC), attivo ai tempi dell’ex presidente assoluto Saleh e il Joint Meeting Parties (JMP), che raccoglieva le opposizioni al governo. Entrambe le compagini, piuttosto che lavorare per il bene comune, hanno goduto dell’immunità da processi di ogni genere, occupando solo metà delle poltrone nel gabinetto e instituendo poi Mansour Hadi come un presidente di garanzia ad interim. In questo caso è valsa la volontà di avere in mano il potere e arricchirsi conseguentemente a discapito dell’economia stagnante e di una crescente corruzione e violenza, in un clima di frustrazione sociale che è tanto più tragico tante quante sono state le vite e le speranze perdute nella rivoluzione del 2011.
Secondo: gli Stati Uniti hanno imparato molto dalla teoria che il nemico di ieri è il nuovo amico di domani. I rapporti degli Usa con l’Iran da una parte e con l’Arabia Saudita dall’altra, sono eloquenti. Infatti, ci si potrebbe aspettare che una vittoria a tutto campo degli Houti sia fonte di preoccupazione per l’America; mentre il governo Hadi era disposto a lavorare con l’Occidente, gli Houti intonano regolarmente “morte all’America, morte a Israele” durante le loro proteste, e il rinnovato dialogo con l’Iran è ancora poco stabile per rassicurare del tutto Washington, dati i precedenti non proprio distesi con Tehran. Dal momento che gli Stati Uniti sono alleati con l’Arabia Saudita – un dato di fatto ulteriormente sancito dopo l’elezione del nuovo monarca, re Salman, e la visita a Riyadh, di Barack Obama – potrebbe sembrare che la posizione americana sia chiara: opporsi al colpo di Stato degli Houti in Yemen.
Ma non è esattamente così. Anche se gli Stati Uniti hanno sospeso i servizi consolari nella capitale Sanaa, Washington ha aperto i contatti con gli Houti. Il sottosegretario alla Difesa per l’intelligence, Michael Vickers, ha confermato che esiste una cooperazione di intelligence con gli Houti contro Al-Qaeda nella Penisola Arabica (la sigla yemenita del gruppo terroristico internazionale) e che la guerra contro il terrorismo in Yemen, operata con attacchi di droni, continuerà come previsto. Questo atteggiamento è assai distante dalla condanna definitiva ai ribelli sciiti che i sauditi vorrebbero da Washington. Ma è assai chiaro che la ragione di questo accordo diplomatico provvisorio è giustificata dal fatto che gli Stati Uniti vedono gli Houthi come partner utile nella lotta contro Al-Qaeda.
Che gli Houti siano un ottimo strumento di contrasto è vero: combattono AQAP per le strade di Sanaa; ma chi ci dice che seguiranno la stessa logica di Hadi che per anni è stato partner di garanzia nella guerra al terrore? Non bisogna dimenticare che, per gli Houti, il vecchio adagio “il nemico del mio nemico è mio amico,” non è sempre vero. Sì, sono acerrimi nemici di AQAP, ma non rinunciano mai ad adornare i loro AK-47 con adesivi recanti il motto del gruppo: “Morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria all’Islam”. Per l’Occidente, questo labirinto della politica yemenita al momento ha una sola priorità, ma molto complessa: trovare un alleato affidabile per combattere in Yemen gli affiliati di Al Qaeda, che hanno rivendicato l’attentato contro gli uffici di Charlie Hebdo a Parigi. Il tutto presenta gravi problematiche per gli Stati Uniti, che hanno anche bisogno di una cooperazione saudita nella lotta contro Stato islamico (ISIS) in Siria e in Iraq. E il governo di Riyadh, visto che l’influenza iraniana sul suo vicino yemenita è aumentata, alza la posta sul contrasto a ISIS e lo lascia fare e disfare.
Sembra che le operazioni antiterrorismo statunitensi continueranno: ogni settimana gli attacchi con droni vengono incrementati. C’è da capire quanto e chi, come accadeva per i precedenti governi di Abdullah Saleh e di Mansour Hadi, sia interessato a collaborare o favorire le azioni antiterrorismo Usa per contrastare i propri rivali politici. Non è un mistero per nessuno, ad esempio, che negli anni Novanta Saleh utilizzò dei mujaheddin già attivi in Afghanistan, nelle guerre civili interne, per favorire l’unificazione del Sud marxista con il Nord e che incoraggiò per lo stesso proposito la diffusione di scuole salafite nel Sud. Così come, successivamente, secondo l’US Treasury Department, Saleh stesso “utilizzò AQAP per portare a termine assassinii e attacchi contro installazioni militari per indebolire il nuovo presidente Hadi dopo la rivoluzione del 2011 e creare il malcontento popolare relativo ai problemi di sicurezza e all’efficienza dell’esercito governativo”.
Il discorso potrebbe anche valere per gli Houti che non sono amici di al-Qaeda e hanno tutto l’interesse a vederla fallire pur di raggiungere il pieno potere, anche incrementando l’addestramento delle forze speciali yemenite da parte di unità militari statunitensi. Se invece prevalesse la linea anti-americana, ideologica e filo Hezbollah, gli Houti potrebbero anche scegliere di non lavorare con gli Usa sui programmi antiterrorismo.
Un governo stabile con un largo consenso popolare, in Yemen, è necessario adesso più di prima, con o senza la benedizione o l’accordo con gli Stati Uniti. A lungo termine, l’instabilità regionale non farà bene a nessuno. Ma quanto sono alte queste speranze di stabilità? Tutti i governi succedutisi in Yemen sono stati a lungo dipendenti dalla liquidità messa a disposizione dall’Arabia Saudita che rischia di ritirare la sua disponibilità di fronte a un governo sciita percepito come ostile. Ciò significa che le difficoltà economiche che hanno portato a questa crisi – l’aumento dei prezzi del carburante e il costo della vita che si accompagna a un alto tasso di disoccupazione – non faranno che peggiorare. E se l’indirizzo unitario del governo di Sanaa non è chiaro, Al-Qaeda e i separatisti nel Sud troveranno ampio margine di manovra per raggiungerei loro obiettivi. Inoltre, se il governo di al-Houti assumesse un carattere spiccatamente settario, potrebbe spingere i sunniti dello Yemen che non hanno mai appoggiato al-Qaeda verso l’estremismo. Una soluzione da scoraggiare con ogni mezzo.
Gli Houti, i ribelli sciiti che hanno occupato il parlamento yemenita una settimana fa e che presidiano ministeri e controlli di sicurezza, hanno appena dato tre giorni di tempo a tutti i partiti per mettersi d’accordo e risolvere la crisi del Paese.