Non basta una rivoluzione per cambiare un paese, soprattutto se in quel paese la giustizia è amministrata con gli stessi metodi e le stesse leggi in vigore durante la dittatura. Recentemente ci sono stati almeno due episodi di morti sospette nelle carceri tunisine, per il momento rimaste impunite.

A Maan Alif, un sobborgo alla periferia di Tunisi, ho incontrato la famiglia di Ali Kheimas Louati, nato il 26 marzo 1987 e morto il 23 settembre 2014 all’ospedale El Moroju. Lo stesso in cui fu ricoverato Mohamed Bouazizi dopo che il 14 gennaio 2011 si diede fuoco con un fiammifero, dando il via alla rivoluzione della dignità.
Ali viveva facendo l’ambulante e guadagnava sei, sette dinari al giorno vendendo legumi nei mercatini della capitale. Il ricavato lo condivideva con il resto della famiglia composta da fratelli, cognate, nipoti. Tutti nella casa di Maan Alif, che i suoi genitori avevano occupato qualche anno prima.
La routine della sua vita fu interrotta due anni e mezzo fa, quando fu arrestato per furto e condotto nel carcere di Borj el Amri. Condannato a tre anni, tra qualche mese sarebbe tornato in libertà, ma la mattina del 23 settembre il sonno della madre Zakia fu disturbato da una macchina della polizia: Ali era morto.
Emorragia cerebrale le dissero, poi arresto cardiaco, poi epatite e infine suicidio. Ali si sarebbe ucciso tagliandosi le vene, anche se sul suo corpo non vi era traccia di tagli, ma solo di ematomi e di costole rotte.
Zakia mi mostra la foto scattata in ospedale e il pantaloncino rosso a fiori bianchi impregnato di sangue, che il figlio indossava quel giorno. In due anni e mezzo di detenzione, Ali era stato ricoverato diciassette volte, un numero sufficiente per confermare il sospetto che subisse violenza.
Zakia aveva chiesto spiegazioni al direttore del carcere, aveva fatto appello per due volte al Presidente della Repubblica Moncef Marzouki perché si occupasse del caso del figlio, ma niente.
Oggi che Ali non c’è più, non le resta altro che manifestare e raccontare, perché sulla morte del figlio non cali il buio. A difenderla, gratuitamente, c’è l’avvocatessa Radhia Nasraoui, presidente dell’Organizzazione contro la tortura e moglie di Hamma Hammami, leader del Fronte Popolare.
Per la Nasraoui l’unica reale conquista della rivoluzione è stata la libertà di espressione e di manifestazione, per il resto, la Tunisia vive gli stessi problemi di una volta.
Soprattutto in tema di giustizia. “La tortura esiste perché c’è l’impunità. La legge non punisce i responsabili degli abusi e la polizia di oggi è la stessa che avevamo ieri. A tre anni dalla rivoluzione, nel paese non c’è stata nessuna riforma della giustizia, per cui se le cose non funzionavano prima, non possono funzionare adesso. Non si può stabilire la democrazia mantenendo le stesse regole della dittatura”, spiega durante la consueta manifestazione del mercoledì sull’Avenue Bourguiba per ricordare Brahmi e Belaid.
Ci sono diversi casi di vittime della giustizia che la Nasraoui difende come avvocato e come attivista. Ragazzi morti di tortura in carcere, salafiti arrestati preventivamente e senza reali capi di accusa, persino un uomo accusato di aver ucciso un imprenditore di Sfax e condannato senza essere mai stato assistito da un avvocato.
Per i giudici è tutto regolare. “In Tunisia si tortura per estorcere una confessione; per chiudere un’indagine; per trovare un colpevole a tutti i costi. Quando un prigioniero viene trasferito da un carcere all’altro, lo si tortura per dargli il benvenuto. In Tunisia si tortura perché non si conosce altra via”, continua a spiegare la Nasraoui, che per il suo attivismo e per le sue posizioni vicine alla sinistra radicale è stata più volte aggredita e oggi vive sotto scorta.
Nessun governo post rivoluzionario si è preoccupato di riformare la giustizia, mentre l’unico punto su cui Ennahda è stato intransigente in sede costituente, nonostante le pressioni della società civile e di Marzouki, è stato la pena di morte. “Creeremo uno stato di diritto forte ma giusto”, è stata la risposta di Beji Caid Essebsi sul tema giustizia durante un’intervista al quartier generale di Nidaa Tounes.
Oggi che le elezioni sono state vinte dal suo partito la società, soprattutto sui temi della giustizia, è già divisa tra chi ha fiducia nel nuovo governo e chi invece è sospettoso per la presenza di ex uomini di Ben Ali.
Non basta una rivoluzione per cambiare un paese, soprattutto se in quel paese la giustizia è amministrata con gli stessi metodi e le stesse leggi in vigore durante la dittatura. Recentemente ci sono stati almeno due episodi di morti sospette nelle carceri tunisine, per il momento rimaste impunite.