Putin: “La Russia è costretta a ritirarsi dal progetto South Stream a causa della mancanza di volontà dell’Ue di sostenere il gasdotto”. Miller (Gazprom): “E’ chiuso, non si torna indietro”.

Ieri ad Ankara il presidente russo Vladimir Putin, nel corso di una conferenza stampa con il premier turco Recep Tayyp Erdogan, ha annunciato la chiusura del gasdotto South Stream. “La Russia è costretta a ritirarsi dal progetto South Stream a causa della mancanza di volontà dell’Ue di sostenere il gasdotto e il gas verrà riorientato verso altri consumatori», ha detto Putin.
Non molto tempo prima, il leader russo aveva evidenziato che le risorse energetiche russe sarebbero state reindirizzate su altri mercati, anche con l’aiuto del Gnl, e che l’Europa non avrebbe in ogni caso ricevuto tali volumi dalla Russia. “Noi riteniamo che ciò non corrisponda agli interessi economici dell’Europa e che danneggi la nostra cooperazione. Ma questa è la scelta dei nostri amici europei. Da parte nostra, una simile intenzione non sussiste; in fin dei conti, sono loro gli acquirenti”, ha dichiarato Putin.
Quindi, come tutti i normali acquirenti, se vogliono comprano, se no, no (e cercano su altri mercati, visto che viviamo in un periodo di abbondanza del gas sul mercato). Come costruire il gasdotto (parliamo della sua prima parte, sottomarina), quando la Bulgaria ha revocato il permesso di farlo nelle sue acque e sul suo suolo? Come ha detto lo stesso leader russo “iniziare la costruzione in mare, andare fino alla riva bulgara ed essere bloccati è semplicemente ridicolo”. Questo lo potrebbe dire persino un bambino dell’asilo. E quindi, dopo uno slittamento sull’inizio della posa dei tubi in mare di un mese (tutto ormai era pronto), è arrivato lo stop. Non c’è la prima tratta, non potranno esserci le altre?
Lo spiegheremo tra poco, ma adesso torniamo a qualche anno prima, quando Russia e Italia hanno deciso di costruire il gasdotto più caro del ventunesimo secolo (o almeno tale era al momento).
Erano altri tempi. Le società di consulenza, i guru della finanza e dell’energia davano per certi sia il prezzo del petrolio sopra i 200 dollari al barile, sia una sete inestinguibile di gas (anzi, con un consumo di 1000 miliardi mc all’anno per l’Europa, l’importo previsto per il 2030 era di 910 miliardi mc, secondo la stima di BCG apparsa sui grandi giornali nazionali ed internazionali). E visto che i prezzi del gas erano collegati direttamente ai prezzi del petrolio (il mercato spot era ridicolo), si prospettava l’affare del secolo. L’Eni non poteva lasciarselo sfuggire.
Così nel 2008 nasce la società 50-50 Gazprom-Eni, ed Eni cerca di recuperare soldi non solo dal trasporto (essendo proprietario al 50%), ma anche dalla vendita al cliente finale. Il cliente era ancora ricco, non era moroso, in Europa c’erano ancora prosperità e ricchezza. Con il tempo, però, lo scenario cambia: l’Europa in crisi consuma molto meno gas e punta pure sulle rinnovabili, con le stime (del profitto del megaprogetto) tutte da rivedere. Eni inizia lentamente a frenare, con l’A.d. Paolo Scaroni che dice “ni” (ai russi diceva “si, vogliamo al più presto possibile South Stream”, ad altri invece diceva no: “Perché non unire i due progetti concorrenti, South Stream e Nabucco – morto pure questo, ndr -, conviene economicamente”; come si può immaginare, con una certa rabbia da parte di Miller, A.d. di Gazprom).
I russi si trovano costretti a trovare due partner di peso (e soprattutto due paesi di peso), la tedesca Wintershall e la francese Edf, e a diluire l’Eni (al 20%), dando ai nuovi partner il 15% ciascuno. Finalmente, tutto è definito, ci sono i permessi e maggiori dettagli, e il 7 dicembre 2012 Vladimir Putin raccoglie i partner industriali del progetto e le autorità dei Paesi coinvolti (dall’Italia arrivarono Paolo Scaroni e l’ambasciatore italiano a Mosca, Antonio Zanardi Landi) per battezzarlo; con la saldatura di due tubi apre ufficialmente la costruzione del gasdotto, che porterebbe il gas russo in Europa attraversando il Mar Nero.
Sono stato lì, nel 2012, ho visto il clima felice di tanti manager e qualche piccolo problema di incomprensione (italiana). Non c’erano ancora problemi in Ucraina, ma già il mercato si surriscaldava – nel mondo c’era troppo gas, grazie anche all’estrazione di shale gas, che l’America usa per bisogni propri, lasciando dunque inutilizzato tutto quello che comprava prima. Il progetto del gasdotto è ancora interessante, ma molto meno di prima. L’UE nel frattempo sta cercando di fare pressione sugli stati membri del progetto, provando a rivedere i contratti con la Russia ed applicare a South Stream le regole del terzo pacchetto d’energia (che lo rende ancora meno attraente). Poi, con la crisi scoppiata in Ucraina, l’Europa trova un’ottima scusa per bloccarlo.
Intanto anche in Italia cresce il fronte “NO South Stream”. Per ragioni sempre economiche Massimo Mucchetti, presidente della Commissione industria e bilancio del Senato, chiama Claudio Descalzi (che è diventato nel frattempo A.d. di Eni) e lo interroga su tutto, inclusa la sorte di South Stream.
Descalzi dice: “L’Eni continuerà a impegnarsi su South Stream se l’investimento sarà di 600 milioni, altrimenti valuterà l’uscita dal progetto, che prevede il 70% dei fondi a debito e il 30% equity”. Aggiunge: “I quattro soci hanno difficoltà a trovare un finanziamento”, ma se si andasse al 100% di capitale, Eni “non potrebbe mai mettere 2,4 miliardi, perché i conti sarebbero un po’ in pericolo”. Da notare che il costo del progetto è salito, e per la parte sottomarina è cresciuto da 10 a 14 miliardi di euro, mentre per il tratto terrestre in territorio europeo da 6,6 miliardi a 9,5 miliardi di euro. Quindi, Descalzi finisce per dire di no al progetto. Simili dichiarazioni si sente anche da Federica Guidi, Ministro dello Sviluppo Economico. Ciò che preoccupava l’Eni e l’Italia era se ci sarebbero state penalità per l’uscita da South Stream. Ma sembrava che le condizioni lo permettessero; dopo l’incontro del 24 novembre a Sochi tra Miller e Descalzi, ormai la sorte del progetto risultava segnata.
Ma era Putin a dover sciogliere il nodo. Lui ha voluto. Lui ha troncato.
Amareggiato un po’ con la Bulgaria, ha reso noto che “i colleghi bulgari hanno più volte detto: ‘il South Stream deve essere assolutamente realizzato, dal momento che questo progetto corrisponde agli interessi nazionali’, ma così non è avvenuto. Se la Bulgaria è stata privata del diritto di comportarsi da stato sovrano, che richieda quantomeno dalla Commissione Europea il compenso per le perdite dei profitti, dato che le entrate di bilancio dal transito sarebbero state non inferiori ai 400 milioni di euro all’anno” – ha dichiarato ora il leader russo ad Ankara. “In definitiva questa è stata anche una scelta dei nostri partner bulgari; evidentemente hanno degli obblighi verso l’UE che noi non conosciamo, ma questo non è affar nostro”, ha concluso.
Cosa fare quindi con i contratti di South Stream, con i tubi già pronti? Non si butta via niente. Miller aveva annunciato: “South Stream è chiuso, non si torna dietro”. Ma poi il numero uno del colosso russo ha aggiunto che Gazprom ha già firmato un MoU (Memorandum of Understanding) con Botas, per un gasdotto di capacità di 63 miliardi mc all’anno (gli stessi di South Stream), che passerebbe sotto il Mar Nero con lo stesso punto di partenza (Russkaja), ma con l’arrivo in Turchia anziché in Bulgaria. 14 miliardi mc è quanto avrebbe preso Erdogan (con uno sconto); il resto, circa 50 miliardi, sarebbe l’hub sulla frontiera greca. E da li potrebbe arrivare il gas per onorare i contratti di South Stream, se i paesi coinvolti lo vorranno. Guarda caso, tutti i gasdotti in progettazione – da TAP, appoggiato dal governo italiano, al neonato di ieri – passano per la Turchia. Ecco quindi che questo paese diventa un nodo cruciale, come l’Ucraina di una volta (anzi di più, perché porta il gas da diverse fonti, non solo russe). Non chiedete più il gas a Putin, lo dovrete chiedere ad Erdogan: avrà lui in mano i rubinetti verso l’Europa.
Evgeny Utkin
Putin: “La Russia è costretta a ritirarsi dal progetto South Stream a causa della mancanza di volontà dell’Ue di sostenere il gasdotto”. Miller (Gazprom): “E’ chiuso, non si torna indietro”.