MOSUL – Si è tornati a celebrare la messa nei villaggi cristiani intorno a Mosul, liberati nelle ultime settimane dai peshmerga curdi, assieme alle milizie assire e alle forze dell’esercito iracheno.
Lo Stato Islamico si prepara alla battaglia urbana nell’antica capitale mesopotamica e dopo quasi dodici mesi si è fatta sentire nuovamente la voce del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, che con un messaggio audio ha invitato i miliziani a resistere ad oltranza. Data la sproporzione delle forze, è evidente chi uscirà vincitore dalla battaglia. Ma “vincere la pace”, sostengono alcuni analisti, sarà più complicato del vincere la guerra contro l’Isis. Hassan Mneimneh, esperto di fondamentalismo islamico per conto del Middle East Institute di Washington, a colloquio con Eastonline, non nega che trovare un modello di governo per le città liberate sarà molto difficile: “Al momento non c’è alcun accordo su come Mosul e, più in generale, la provincia di Ninive verranno amministrate dopo il successo della campagna militare. Le dichiarazioni di Bagdad ed Erbil, del governo centrale iracheno e di quello regionale curdo, sono agli antipodi. Le comunità che abitano o abitavano la provincia hanno delle richieste di cui bisognerà tenere conto. E gli arabi sunniti, che rappresentano ancora la maggioranza della popolazione, attualmente non sono né organizzati, né rappresentati”.
Tra le comunità che chiedono maggiore voce in capitolo sul proprio futuro c’è sicuramente quella cristiana: siriaci, assiri, caldei. Dal punto di vista etnico e linguistico, non ci sono differenze tra di loro. Parlano aramaico, l’idioma in cui predicava Gesù Cristo, e ne sono orgogliosi. I siriaci appartengono alla chiesa ortodossa, i caldei riconoscono il primato del Vaticano. Dall’arrivo dello Stato Islamico, nel 2014, il numero degli sfollati dalla piana di Ninive, dove viveva buona parte di questa comunità, è arrivato fino a 250.000. Molti si sono rifugiati nel Kurdistan iracheno, ma circa il 40 per cento di loro si trova in altri Paesi dell’area, come Giordania, Libano e Turchia. Un numero considerevole di cristiani si è detto pronto a rientrare nelle città liberate (e riconquistate, in parte, grazie agli sforzi delle milizie assire locali, come quelle addestrate dall’americano Matthew VanDyke, che Eastonline ha recentemente intervistato). La loro condizione, però, hanno messo in chiaro alcuni loro leader, intervistati dal sito al Monitor, non potrà essere quella pre-arrivo dell’Isis: “Dobbiamo avere una regione autonoma nella piana di Ninive, a nord e a sud”, hanno dichiarato. “A Nord erano tutti centri cristiani. Abbiamo convissuto con tutte le altre minoranze religiose, come gli yazidi. Dopo la guerra del 2003, però, sia Bagdad che Erbil non hanno rispettato i diritti delle minoranze”.
Mneimneh sostiene che non si tornerà allo status quo ante, ma il processo sarà tutt’altro che privo di tensioni: “Una provincia yazida, con Sinjar come capitale, è uno sbocco probabile nella prossima fase, con Bagdad ed Erbil che lotteranno per l’egemonia su questa comunità. Meno probabile è la formazione di una provincia cristiana, ma in qualche modo una certa forma di autonomia andrà riconosciuta, il che potrebbe portare ad una formula innovativa. Anche in questo caso governo centrale iracheno e curdi si contenderanno il controllo sui cristiani”.
A chi risponderanno, quindi, queste eventuali province autonome, a Bagdad o a Erbil? Non è chiaro. Questo spiega perché anche la concessione di nuove autonomie non scioglierebbe tutte le tensioni. Alcuni analisti hanno parlato della partizione dell’Iraq come di un’ipotesi percorribile. Mneimneh sostiene invece che “la divisione del Paese può creare ancora maggiori problemi, dal momento che le varie comunità non occupano parti territoriali così distinte. La devoluzione dell’autorità a un governo locale, che sia a livello provinciale o di distretto, può rappresentare un’alternativa, ma ha già dimostrato altrove, in Iraq, di creare nuove questioni. Il Kurdistan iracheno è indirizzato verso l’indipendenza, ma il processo non è lineare ne’ irreversibile. I vari partiti curdi non sono stati ancora in grado di guidare la transizione verso un processo genuinamente democratico”.
Sul futuro di Mosul si aggirano altri due spettri, gli sciiti e quel che resterà dello Stato Islamico. L’analista dice che “le milizie sciite, sostenute dall’Iran, non faranno parte della campagna militare all’interno di Mosul. Una volta che l’esercito iracheno avrà completato la liberazione della città, però, molti temono che le milizie vi entreranno come parte della forza di polizia”. Quanto all’Isis, Mneimneh prevede che “rimarrà come un elemento di disturbo nella prossima fase e proverà a reclutare tra gli iracheni sunniti eventualmente esclusi dal processo politico. D’altra parte, lo Stato Islamico, in linea generale, si sta già riposizionando. Lo sta facendo guardando molto all’Afghanistan, nonché rafforzando la sua presenza in molti Paesi prima considerati satellite, soprattutto in Asia”.