MOSUL – Siamo fiduciosi e diciamo che tra poco Mosul, e con essa la Piana di Niniveh che la circonda, sarà liberata dopo più di due anni di occupazione da parte dei jihadisti dell’Isis. Un grande risultato ma… che cosa succederà dopo?
I problemi pratici da affrontare per restituire quell’area a una vita normale saranno enormi. Lo ha sottolineato, facendo un esempio drammatico, lo stesso patriarca della Chiesa cattolica caldea dell’Irak, Sua Beatitudine Louis I Sako, che fu parroco a Mosul e arcivescovo a Kirkuk, in un recente appello: “Sfortunatamente, risulta oggi difficile sapere in quale condizione verseranno i villaggi cristiani dopo la loro liberazione. Non vi sono però dubbi circa il fatto che, come è avvenuto in altre città irakene liberate, sarà necessario ricostruire le scuole, le case, ripristinare le cliniche, gli ospedali e le chiese. Ciononostante, prima di pensare alla ricostruzione, prima di tornare per restituire nuova vita alle nostre care e beneamate città della piana di Niniveh… sarà necessario rimuovere un grande ostacolo… Vi voglio parlare delle mine e delle molte insidie che lo Stato Islamico dissemina nel terreno quando è costretto ad abbandonare un territorio. In ogni zona dalla quale lo SI si ritira semina morte e distruzione nascondendo nel terreno mine e congegni esplosivi”.
Il problema dei problemi, però, sarà ricostruire un’ipotesi di convivenza tra i due gruppi che in quell’area, prima dell’irruzione dell’Isis, erano più rappresentati: i musulmani sunniti e i cristiani. Questione spinosa per almeno due ragioni. La prima è che i profughi cristiani (ai quali vanno aggiunti gli yazidi e gli altri che sono comunque fuggiti: solo in Kurdistan si sono ammassate quasi 250 mila persone) sono stati scoraggiati dalla vita impossibile nei campi e negli alloggi di fortuna. Per qualche tempo si è stimata la percentuale di coloro che non sarebbero rientrati tra il 25 e il 30%. Una più recente indagine, realizzata dal Niniveh Centre for Research and Developement, fissa addirittura nel 42% la quota di coloro che vogliono andare a vivere altrove. Molti di questi iracheni, insomma, considerano più promettente l’esilio, anche all’estero. Se consideriamo anche il massacro degli yazidi, diventa evidente che la composizione etnico-religiosa della Piana di Niniveh è ormai compromessa.
La seconda ragione, ancor più inquietante, è quella che monsignor Amil Nona, arcivescovo di Mosul, fuggito dalla città davanti ai miliziani dell’Isis, sottolineava quando lo intervistai a Erbil (Kurdistan), dov’era sfollato: “I cristiani di Mosul sono sempre stati trattati poco bene dai musulmani, e non solo dopo l’invasione del 2003. Quando è arrivato l’Isis, anche quelli che credevamo nostri amici si sono rivoltati contro di noi e spesso sono stati i primi, ancor prima dei miliziani, a minacciarci e a prendersi le nostre cose. Quando ero arcivescovo a Mosul, conoscevo tante persone, anche di alto livello culturale o di peso nella vita della città. In un anno qui a Erbil ho ricevuto un solo messaggio di una persona che conoscevo e frequentavo. Nessun altro si è più fatto vivo, anche solo per chiedere notizie. Ricostruire la fiducia tra le due comunità sarà difficilissimo, per non dire impossibile”.
In questo campo la “ricostruzione” sarà dura. Anche perché i rapporti tra musulmani sunniti e cristiani sono inevitabilmente influenzati da quelli tra gli sciiti oggi al potere e i sunniti stessi. Se i Governi sciiti continueranno con la politica attuata finora, di discriminazione sociale ed economica ai danni dei sunniti, le tensioni come sempre finiranno per scaricarsi sulla comunità più debole, appunto quella cristiana.
Una risposta assai dibattuta, e gradita anche a molti tra i cristiani, è quella di costituire un “safe heaven” nella Piana di Niniveh in cui concentrare le minoranze per meglio proteggerle. Ma anche questa è una finta soluzione. Lo spezzettamento dell’Iraq (e del Medio Oriente in generale) in tante entità statali o para-statali delineate da confini etnico-religiosi, che tanto convince politici e politologi di area anglosassone, andrebbe a esaltare, e non a risolvere, il grande problema della regione: il settarismo comunitaristico. Con tutti i rischi di ulteriori conflitti che ne derivano.
E poi, per creare il “safe heaven” della Piana di Niniveh, bisognerebbe mettere d’accordo le ambizioni dei musulmani sunniti, le rivendicazioni dei cristiani, le pretese territoriali dei curdi e il desiderio di controllo del Governo centrale sciita. Qualcuno davvero crede che tutto questo sia possibile, nell’Iraq di oggi?