Un sostenitore di Donald Trump a Staten Island a New York City, Stati Uniti, 3 ottobre 2020. REUTERS/Andrew Kelly
Le organizzazioni multinazionali appaiono oggi più necessarie che mai ma devono trovare il coraggio di riformarsi nel profondo
Un sostenitore di Donald Trump a Staten Island a New York City, Stati Uniti, 3 ottobre 2020. REUTERS/Andrew Kelly
Cosa preferire? Cosa privilegiare? Il rapporto bilaterale fra Stati egualmente sovrani ma ciascuno ben conscio di quale sia il proprio peso nell’arena internazionale, oppure un multilateralismoche almeno formalmente ponga tutti su un piano di parità all’interno di grandi organizzazioni internazionali, destinate tra l’altro ad acquisire anche esse, col tempo, una loro distintiva personalità nettamente differente da quella di ciascuno degli Stati membri? Si tratta di interrogativi fondamentali cui ogni protagonista del panorama politico mondiale è tenuto non soltanto a fornire una risposta, tenendosi anche pronto a variarla con tempestività qualora ciò dovesse rendersi necessario per il perseguimento dell’interesse nazionale.
Tradizionalmente le grandi potenze amano i rapporti bilaterali molto più del multilateralismo, che spesso non consente loro di valorizzare al massimo la differenza nei parametri di base che li separa dagli interlocutori del momento. Medie potenze e piccoli Stati prediligono invece il multilateralismo, che spesso riesce a dar loro modo di associarsi sino a costituire massa critica. In tempi recentissimi la diffidenza dei grandi verso il multilateralismo è stata evidenziata con lampante chiarezza dal modo in cui il Presidente Trump ha impostato nel corso del proprio mandato la politica degli Stati Uniti, ponendo ben in chiaro in qualsiasi momento la disistima ed il sospetto che nutriva nei riguardi delle grandi organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, la Nato e l’Unione europea, che del multilateralismo sono divenute in un certo senso il simbolo. Più sfumata invece si è rivelata nel medesimo periodo l’azione di Cina e Russia che, pur privilegiando i rapporti bilaterali, hanno cercato sempre di utilizzarli anche per creare condizioni particolarmente favorevoli alla loro azione in ambito multilaterale.
Per contro il nostro Paese, media potenza purtroppo avviata su una china discendente, ha continuato nella sua politica tradizionale consistente, ormai da parecchi decenni, nel considerare l’indiscutibile e assoluta fedeltà al multilateralismo come una linea di azione da cui assolutamente non bisogna discostarsi. Al massimo potranno cambiare, e ciò di norma avviene in sintonia con l’alternanza di governi di destra e di sinistra, le priorità da conferire alle principali organizzazioni multinazionali. Al primo posto, allorché c’è la destra al potere, vi sarà così sempre quell’Alleanza Atlantica che, come dicono oltre Oceano, “embodying the transatlantic relations”, ovverosia il rapporto europeo con gli Stati Uniti. Seguono poi l’Unione europea e infine le Nazioni Unite, con un ordine relativo che può essere condizionato − arrivando addirittura a capovolgersi − dalla composizione della destra del momento. Se invece è la sinistra a trovarsi al Governo, l’Onu rimarrà sempre, almeno formalmente, in testa alla lista, seguito a distanza molto breve, o addirittura affiancato al medesimo livello, dalla Unione europea, mentre alla Nato viene lasciato il ruolo di fanalino di coda.
Al di là di queste enunciazioni, più o meno di massima, occorre comunque considerare tutta una serie di fattori che nell’attuale momento storico rendono quanto mai fluida la situazione complessiva. Il primo consiste nel fatto che i problemi di carattere globale, e che quindi necessitano per essere risolti di una risposta che sia quanto più possibile globale, stanno diventando sempre più numerosi. Parecchi aspetti della cosiddetta globalizzazione hanno inoltre concorso nel conferire loro una gravità e una urgenza che fino a poco tempo fa non avevano… O perlomeno non dimostravano. Bisogna inoltre porre in linea di conto il fatto che il progressivo cambiamento di situazione ha finito col delineare un mondo in cui nessuno può più pretendere − nonostante ciò sia avvenuto sino a ieri! − di essere e rimanere in eterno il primo, “the first”!
Al massimo sarà invece possibile competere per restare un “primus inter pares“ in un gruppo che comprende sicuramente Stati Uniti, Cina e Unione europea, che forse congloba già anche la Russia e l’India e che appare destinato ad allargarsi ulteriormente in un futuro molto prossimo. Va nella medesima direzione poi anche il fatto che nel corso degli anni più recenti il bipolarismo esasperato ha finito con l’occupare troppo a lungo il centro della scena, e spesso con risultati decisamente negativi. Il pendolo dell’alternanza e dell’equilibrio tende quindi ora ad oscillare in direzione opposta, tornando a privilegiare i rapporti multilaterali rispetto a quelli bilaterali.
Stiamo dunque procedendo di nuovo verso un periodo in cui il multilateralismo sarà prevalente sul bilateralismo?
A meno di sorprese, sempre possibili sullo scenario internazionale, questo è quanto dovrebbe accadere, e le prime avvisaglie del fatto che le cose stiano così vengono dal modo in cui l’Unione europea ha potuto e saputo imporsi come perno centrale della gestione della crisi Covid e di tutti i suoi annessi in ambito continentale.
Un altro indizio consisterà, in un futuro abbastanza recente, nel rinnovo dei vertici dell’Onu e della Nato, che dovrebbero essere affidati a personalità meno legate al bilateralismo fino a ieri trionfante e più aperte a logiche multilaterali di quanto non avvenga con gli attuali titolari. Del resto la scelta di Ursula von der Leyen come Presidente della Commissione Ue è già andata in quella direzione… In ogni caso se dobbiamo affidarci e confidare nel multilateralismo sarebbe perfettamente inutile, e per molti versi estremamente dannoso, dare credito ad un multilateralismo che non sia in grado di funzionare perfettamente, cioè di riuscire a trasformare le decisioni coralmente adottate in linee di azione destinate a tradursi a loro volta in realizzazioni concrete in tempi strategicamente accettabili.
È qualcosa che al momento attuale non avviene. L’Onu è infatti paralizzato da una struttura di vertice che lo inchioda a una fotografia del mondo quale esso era nel 1945. L’Unione europea soffre nel contempo le conseguenze di una assurda “regola nell’unanimità” che ne blocca le decisioni nei settori di azione più importanti e consente una distruttiva politica del ricatto che i Paesi un tempo membri del Patto di Varsavia sembrano aver imparato sin troppo bene. La Nato infine, nonostante tutte le dichiarazioni in senso contrario, ha finito con l’assumere in pratica negli anni 2000 una configurazione stellare che pone gli Usa al centro e relega tutti gli altri in periferia. Quanto alle altre assise che potrebbero eventualmente giocare un ruolo, come l’Osce ad esempio, o il G20, esse non sono mai riuscite sino ad ora a raggiungere quei livelli di influenza cui pure avrebbero potuto aspirare.
A questo punto una stagione di riforme, e di riforme reali, profonde e costruttive i impone come la prima delle necessità. Sapremo farle? È un interrogativo pesante, considerato come l’uomo non abbia mai amato il cambiamento… A volte però è indispensabile cambiare se non si vuole perire!
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.