“Nessuna recinzione, nessun muro impedirà ai profughi di fuggire” affermava un anno fa il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, in seguito alla decisione di Budapest di elevare la barriera di separazione tra l’Ungheria e la Serbia. Politica e media avevano rispolverato, dall’armadio della Storia, l’immagine del Muro di Berlino (emblema del mondo diviso in blocchi) per condannare la politica di contenimento dei flussi migratori di Orban.
Ma siamo sicuri sia stato l’esempio adatto da proporre?
Da decenni ormai, al Muro sono collegati tre fotogrammi: il salto della recinzione della guardia di frontiera Conrad Schumann, il dipinto del bacio tra Honecker e Breznev e la gente in festa, nel novembre del 1989, sopra quell’agglomerato di cemento che di lì a poco sarebbe stato abbattuto.
Aneliti di libertà fermati nel tempo da uno scatto o da una cinepresa e che, ventisette anni dopo, sono l’icona della Guerra fredda. Ma, come al cinema, anche nella realtà la storiografia ha un debole per gli happy end: un anno dopo l’apertura delle frontiere, infatti, l’euforia della riunificazione si scontrò con seri problemi sociali (che in parte durano ancora oggi), ponendo anche l’Occidente di fronte ad alcune problematiche, prime fra tutte quelle finanziarie.
Aperti i check point e mandata in pensione la Stasi, nei lander orientali il ritorno alle libertà civili fu accompagnato dall’aumento del costo della vita, dalla crisi occupazionale seguita alla privatizzazione delle fabbriche, dalla scomparsa del sistema di assistenza pubblica.
Quanto al resto del blocco comunista, la riapertura dei confini spinse milioni di persone a migrare in cerca di fortuna a Ovest. Altro fotogramma: nave Vlora che approda a Bari (7 agosto 1991) con 20 mila profughi albanesi, immagine-icona della fine dell’Era comunista.
Le condizioni economiche in cui versava l’Europa orientale l’indomani del 9 novembre ’89 erano preoccupanti: l’industria pesante non poteva competere con i ritmi e le tecnologie del libero mercato, molte aziende furono privatizzate e il tasso di disoccupazione e povertà raggiunse livelli molto elevati in tutte le ex Repubbliche popolari.
La Germania, poi, dovette anche far fronte alle clausole del Congresso di Londra del 1953, che imponevano il saldo delle riparazioni di guerra a riunificazione avvenuta. Inizialmente, il Congresso permise ad un paese distrutto di saldare il debito accumulato fra 1919 e il 1945 con uno “sconto” del 50% (circa 15 miliardi di dollari contro i 32 previsti); le altre spese furono procrastinate al momento in cui la nazione sarebbe tornata unita, eventualità che nel ’53 pareva essere molto remota. Nel 1990, dunque, sorse ai tedeschi il problema di come coprire la somma di 1500 miliardi di dollari. L’allora cancelliere Helmut Kohl non tardò a far presente che ottemperare agli accordi avrebbe significato il fallimento del suo paese, aggiungendo poi che la Germania aveva già investito molte risorse per la realizzazione del progetto che, di lì a poco, si sarebbe concretizzato con il Trattato di Maastricht (entrato in vigore il 1° novembre 1993).
Inoltre, le enormi spese derivate dalla fusione fra Repubblica Federale Tedesca e DDR erano già sufficienti ad impegnare l’economia tedesca, costretta a farsi carico delle criticità della parte orientale.
Dei 1500 miliardi iniziali, quindi, il governo tedesco ha restituito circa 239 milioni di marchi (ultima rata dei quali versata nel 2010) con buona pace di creditori come la Grecia, che non ha mai ricevuto il suo indennizzo.
“Nessuna recinzione, nessun muro impedirà ai profughi di fuggire” grida Schulz nel 2015, forse dimentico che l’Europa che salvò il suo paese nel 1990 non è la stessa di oggi: di fronte all’emergenza migranti l’UE si è mostrata divisa e incapace di dare una risposta chiara e ferma, non mostrando all’Italia e alle nazioni attraversate dalla Balkan Route quel senso di solidarietà che aveva contribuito a costruire il sogno di Maastricht.
Vero, dopo gli accordi con la Turchia il traffico lungo la Balkan Route si è drasticamente ridotto, ma non è da escludere che le recinzioni di Orban possano essere, in un futuro prossimo, prese a modello da altri paesi membri e non tanto per razzismo e xenofobia, quanto per il timore di essere lasciati soli a gestire un fenomeno che sta assumendo proporzioni bibliche.
“Nessuna recinzione, nessun muro impedirà ai profughi di fuggire” affermava un anno fa il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, in seguito alla decisione di Budapest di elevare la barriera di separazione tra l’Ungheria e la Serbia. Politica e media avevano rispolverato, dall’armadio della Storia, l’immagine del Muro di Berlino (emblema del mondo diviso in blocchi) per condannare la politica di contenimento dei flussi migratori di Orban.