La filantropia senza cuore può creare gli stessi problemi che dovrebbe risolvere.
Solo a guardare la classifica delle maggiori donazioni mai fatte ci si rende conto delle dimensioni di questa industria: il “guru” degli investimenti americano Warren Buffett ha da solo donato alla Fondazione di Bill e Melinda Gates oltre 30 miliardi di dollari in contributi pluriennali per la lotta alla povertà e alle principali malattie mortali (malaria, tubercolosi e Aids). Una cifra da capogiro, ben superiore al Prodotto Interno Lordo di molti Stati.
Eppure è un valore che rappresenta solo la punta dell’iceberg. Se infatti i Buffett, i Gates e i loro colleghi miliardari hanno donato e continuano a elargire parti sostanziali delle loro fortune per cause umanitarie, a sostenere il no-profit in tutto il mondo sono nei fatti le tante persone comuni che ogni anno donano una parte del loro reddito per alleviare i problemi del mondo.
Secondo uno studio condotto nel 2012 dalla rivista The Chronicle of Philanthropy, che ogni anno stila la classifica dei maggiori 50 donatori e dei primi 400 gruppi no-profit degli Stati Uniti, i ricchi (redditi annui superiori ai 100.000 dollari) donano ogni anno una proporzione del loro reddito pari solamente al 4,2%, ben inferiore al 7,6% destinato al sostegno delle attività benefiche dalle classi medie (redditi tra i 50 e i 75.000 dollari). E il totale non è di poco conto: si parla di donazioni tra i 300 e i 330 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti nel 2011 e 2012, di cui il 73% da privati e solo l’1% dalle aziende.
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La filantropia senza cuore può creare gli stessi problemi che dovrebbe risolvere.