La nuova agenda urbana di Habitat III
Tra il 17 e il 20 Ottobre scorso si è svolta a Quito, in Ecuador, Habitat III, la terza conferenza internazionale organizzata da UN-Habitat, l'Agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani.
Tra il 17 e il 20 Ottobre scorso si è svolta a Quito, in Ecuador, Habitat III, la terza conferenza internazionale organizzata da UN-Habitat, l’Agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani.
L’evento è importante perché dopo il primo incontro del ’76 a Vancouver ed il secondo del ’96 ad Istanbul, l’agenda urbana definita a Quito guiderà l’azione di un vasto sistema di attori istituzionali e non (stati nazionali e amministrazioni locali, fondi internazionali per lo sviluppo ed i programmi delle Nazioni Uniti) per i prossimi 20 anni. Anni che si preannunciano particolarmente caldi, con una crescita dell’urbanizzazione che porterà 6 persone ogni 10 a vivere in città e con oltre il 90% di questa crescita che avverrà in Africa, Asia, America Latina e i Caraibi.
Ne parliamo con Costanza La Mantia, Senior Lecturer presso la Scuola di Architettura e Pianificazione della Universita del Witwatersrand a Johannesburg, da oltre 10 anni impegnata nel campo dell’insegnamento dello sviluppo urbano sostenibile in varie aree del continente africano.
Costanza, che cosa c’è dentro questa “nuova agenda urbana” e perché è così importante? Quali sono le sfide in gioco e in che modo questa carta aiuterà ad affrontarle?
La Nuova Agenda Urbana è il risultato di un processo lungo e complesso, che si conclude con la conferenza Habitat III a Quito con l’obiettivo di indirizzare le scelte e le azioni politiche principali verso lo sviluppo di insediamenti umani sia rurali che urbani che siano più sostenibili. L’Agenda, composta da impegni ed obblighi che i vari governi locali e nazionali dovranno sottoscrivere, ambisce alla definizione di una nuova strategia globale che diriga lo sviluppo urbano per i prossimi due decenni. Idealmente la NUA può essere vista come l’evoluzione degli obiettivi definiti dai Millennium Development Goals e della Post-2015 Development Agenda, poiché il progressivo riconoscimento degli impatti e delle potenzialità dei processi di urbanizzazione sul nostro pianeta ha iniziato ad emergere intorno alla definizione dei MDG ed alla loro valutazione critica. A seguito di questo iniziale riconoscimento l’attenzione si è progressivamente spostata sull’importanza di definire un rapporto positivo tra urbanizzazione e sviluppo. Infatti, l’idea che l’urbanizzazione e lo sviluppo debbano essere inquadrati come strumenti paralleli per la crescita urbana (e rurale) sostenibile, prende forma completa nella NUA.
Per questo, gli elementi più interessanti della NUA per me sono la continua sottolineatura della necessità di un approccio integrato allo sviluppo urbano, ed i numerosi richiami ad approcci operativi per l‘attuazione di politiche e progetti concreti. Questa forte spinta verso un impegno reale nella implementazione è resa evidente, ad esempio anche dal Quito Implementation Plan, ovvero il piano di attuazione di Quito, un documento aperto a sottoscrizioni nominali intorno ad impegni specifici e che i vari partecipanti istituzionali hanno firmato a Quito.
Quest’attenzione e “pressione” verso un approccio fortemente operativo è un fattore molto importante, ed è quello che distingue chiaramente la NUA da precedenti documenti simili, a partire dalla stessa struttura del documento, in cui gli impegni di trasformazione per lo sviluppo urbano sostenibile (che si fondano dichiaratamente sulle dimensioni sociali, economiche e ambientali, viste come uniche ed indivisibili), vengono declinati attraverso la descrizione di precisi Obiettivi di Sviluppo e di Strumenti Operativi per l’attuazione dei primi. Nella misura in cui i primi possono essere considerati un inquadramento tematico che cerca di definire come i processi di urbanizzazione attuali e futuri possano generare sviluppo integrato, i secondi delineano come procedere all’attuazione pratica dei precedenti obiettivi, e sono ispirati dal cosiddetto approccio “a tre gambe” come definito da Joan Clos, direttore di UN-Habitat: rafforzamento dei sistemi fiscali locali, pianificazione urbana, ed erogazione dei servizi di base ed infrastrutture.
Quest’approccio è lo stesso che è alla base della più recente creatura di Clos a UN-Habitat, i Laboratori di Pianificazione e Disegno Urbano, una unità piena di specialisti che si concentrano fortemente sulla Progettazione e Pianificazione Urbana, visti come gli strumenti operativi per trasformare i quadri di riferimento politico come la NUA in interventi reali. Questa nuova unità, presentata al pubblico durante Habitat III, ha iniziato ad operare alla fine del 2014 e sta già collaborando con circa 40 città, per lo più in paesi in via di sviluppo, con l’obiettivo di elaborare piani strategici e progetti che ambiscono anche a costruire capacità a livello locale. Questa unità per me rappresenta un cambiamento interessante rispetto alle tradizionali modalità di UH-habitat, in quanto opera rafforzandone il braccio operativo e fondando, finalmente, le politiche e le strategie in trasformazioni spaziali reali, in grado di agire come esempi, dimostrando praticamente come attuare pragmaticamente i principi della NUA. O almeno questo ne è l’obiettivo.
Uno degli aspetti che mi è sembrato più interessante di questa terza conferenza è stata la sua trasformazione in un evento fortemente partecipato, aperto non solo agli attori istituzionali tradizionali, ma anche per esempio alle reti tra città (come ICLEI – Local Government for Sustainability ed UCLG United Cities and Local Governments), oltre ad NGOs e alcune (non moltissime a dir la verità) università…
L’apertura a reti formali, soprattutto quelle istituzionali, è sempre stata una prerogativa di eventi guidati dalle Nazioni Unite da un po’ di tempo a questa parte, come abbiamo visto vari World Urban Forum, ma ciò che veramente caratterizzato Habitat III è stata la partecipazione dei cittadini. E’ stato impressionante. Le iscrizioni sono state più di 50000, e a quanto pare più di 35000 le persone che hanno poi fisicamente partecipato (che è un numero enorme). In particolare, la partecipazione dei residenti di Quito, soprattutto giovani cittadini, è stata sorprendente, mostrando un trend positivo ed un crescente interesse e consapevolezza della società civile. Inoltre, vale la pena menzionare i molti altri eventi non ufficiali che si svolti parallelamente alla conferenza ufficiale di Habitat III, dal Forum Sociale della Resistenza Popolare ad Habitat III (People Social Forum Resistence) – un contro-evento di contestazione critica che disapprovava la natura neoliberista della NUA- agli eventi organizzati dalle università locali, come “PUCE HIII”, organizzato dalla Pontificia Universita Catolica de Ecuador (PUCE), che prevedeva una serie di seminari paralleli e laboratori sulla NUA e sulle sue implicazioni per la società civile, mondo accademico e professionisti.
Sebbene ci siano certamente ragioni per essere critici (ed anche per qualche punta di cinismo) intorno ad eventi come Habitat III, si può anche sostenere che tutto questo è sostanzialmente positivo, compresi gli eventi di opposizione, in quanto attori molto diversi tra loro hanno in queste sedi la possibilità di comunicare le loro esplicite posizioni e talvolta sono anche in grado di influenzare decisioni importanti.
Un altro aspetto che trovo importante è il processo preparatorio della conferenza che ha visto coinvolti per mesi soggetti distribuiti nei 5 continenti…
Il processo di preparazione che ha portato alla definizione della NUA presentata a Quito, il cosiddetto Comitato Preparatorio (o comitati di redazione) si è svolto in tre fasi: PrepCom 1 è iniziato il settembre 2014, seguito rispettivamente da PrepCom2 e 3, nel mese di aprile 2015 e luglio 2016. Ciascuna fase è stata composta da diversi gruppi di lavoro tematici, numerosi eventi ufficiali e semi-ufficiali e molto altro ancora: un tentativo di allargare la rappresentanza di mondo accademico, società civile, istituzioni ed esperti di sorta provenienti da tutto il mondo, per delineare e discutere questioni di pertinenza regionale e/o tematica. In aggiunta a tutto questo, da agosto 2015 a febbraio 2016, le cosiddette “unità politiche”, composte da circa 200 esperti, hanno stabilito una serie di raccomandazioni per la stesura e l’attuazione della Nuova Agenda Urbana, poi sottoposte ad un ampio commento pubblico.
Lo scopo di un processo di preparazione così lungo ed articolato è stato quello di definire progressivamente il contenuto del NUA in modo più possibile inclusivo, processo culminato con la stesura della cosiddetta “Zero Draft ” presentata a maggio 2016, ed attorno alla quale una successione di negoziazioni politiche hanno prodotto una serie parallela di susseguenti bozze. L’ultima è stata presentata ed adottata a Quito il 21 Ottobre 2016.
Credo che questo processo molto articolato, che ha portato alla definizione di un’agenda internazionale condivisa attorno ai temi dello sviluppo urbano, sia stato probabilmente il processo più partecipato e inclusivo che abbiamo mai avuto in un evento di questo tipo. Naturalmente ci sono critiche, e sicuramente le cose avrebbero potuto essere meglio articolate ed altre gestite diversamente. Ciononostante, personalmente credo che il processo stesso sia stato un esperimento estremamente interessante, soprattutto per quel che riguarda l’attivazione di eventuali processi e reti di governance globale, e questo ha un enorme valore di per sé. Anche se, naturalmente, l’agenda dovrà ora essere radicata in impegni reali e relative azioni a livello locale e nazionale.
Complessivamente quali sono le tue impressioni?
Nel complesso è stato certamente un evento storico, ed è stato molto interessante esserne uno dei testimoni. Tuttavia alcune cose rimangono problematiche per me. Mi è capitato spesso di aver percepito un approccio piuttosto superficiale ad alcune questioni. Un buon esempio è il tema ricorrente della resilienza urbana, per lo più inquadrato come risposta ai disastri, o intesa come riduzione dei rischi, adattamento e preparazione; concetti che rappresentano punti di vista molto parziali rispetto a ciò che il concetto di resilienza apporta davvero al modo in cui vediamo e lavoriamo con le nostre città. Questo processo di banalizzazione dei concetti è stato particolarmente evidente nel caso della resilienza urbana, troppo spesso usato genericamente riferimento a qualsiasi rischio che minaccia le città, soprattutto per quanto riguarda i potenziali shock sociali ed ambientali, e che sembra essere niente di più che una nuova parola d’ordine che si sta sostituendo a sviluppo sostenibile, ma è successo anche con diverse altre questioni.
Per esempio, una novità di Habitat III è stata il riferimento al “diritto alla città”, menzionata nella nuova agenda urbana dopo lunghe trattative, con grande acclamazione dei movimenti sociali, il diritto alla città era presente in numerose presentazioni e discussioni in entrambe le sessioni del programma ufficiale, parallelo e gli eventi alternativi. Originariamente proposta dal sociologo marxista Henri Lefebvre, l’idea è stata ulteriormente sviluppata da David Harvey, che lo definisce come “il diritto non solo di avere accesso a ciò che già esiste [in città], ma anche di cambiare [le citta], e di essere in grado di vivere delle nostre stesse realizzazioni”. Il diritto alla città è sempre stato uno slogan classico, che ha unificato i diversi movimenti di resistenza anticapitalista urbana, ma a Quito, dopo essere stato adottato (non senza opposizione) come parte della NUA, sembra che sia stato svuotato di contenuti, fino al punto in cui il concetto è stato utilizzato da certi attori da sempre molto lontani da quelle organizzazioni che tradizionalmente fanno uso di questa rivendicazione.
In questi termini sono certamente d’accordo con la posizione di Harvey sulla conferenza Habitat e la NUA, quando dice che entrambe sono dominate da un approccio neoliberale che sembra concentrare i nostri sforzi e risorse verso la costruzione di città per investire piuttosto che città per vivere. Una posizione che si riferisce in particolare alla mancanza di dibattito intorno a cruciali problemi evolutivi per uno sviluppo sostenibile globale, alcuni dei quali sono radicali per definizione, come ad esempio la necessità di diritti diversi dalla proprietà, che rimpiazzino il concetto di proprietà privata (il che aprirebbe le porte ad un vero e proprio processo di ridistribuzione nelle città) e l’individuazione di modelli alternativi di sviluppo per le nostre città, la nostra società e le nostre economie.
In ogni caso ciò che resta da vedere è l’impatto che questo documento e la sua potenzialmente storica adozione avranno nell’attuazione delle politiche e progetti in tutto il mondo: se gli impegni saranno azioni, e la conoscenza e la collaborazione regneranno su interessi e corruzione. Ma questa è una responsabilità condivisa, che investe ogni cittadino del mondo tanto quanto qualsiasi istituzione e governo, poiché quella di plasmare un mondo “urbano” migliore è una responsabilità assolutamente collettiva.
Tra il 17 e il 20 Ottobre scorso si è svolta a Quito, in Ecuador, Habitat III, la terza conferenza internazionale organizzata da UN-Habitat, l’Agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani.
L’evento è importante perché dopo il primo incontro del ’76 a Vancouver ed il secondo del ’96 ad Istanbul, l’agenda urbana definita a Quito guiderà l’azione di un vasto sistema di attori istituzionali e non (stati nazionali e amministrazioni locali, fondi internazionali per lo sviluppo ed i programmi delle Nazioni Uniti) per i prossimi 20 anni. Anni che si preannunciano particolarmente caldi, con una crescita dell’urbanizzazione che porterà 6 persone ogni 10 a vivere in città e con oltre il 90% di questa crescita che avverrà in Africa, Asia, America Latina e i Caraibi.
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