Per i movimenti indipendentisti, un dominio Internet è già mezza vittoria.

I filosofi antichi ritenevano che ci fosse una relazione profonda tra i nomi e le cose che questi designavano. Al tempo di Internet, questa magica relazione sembra essersi stabilita tra nomi (di dominio) e entità geopolitiche inesistenti o contestate. È sufficiente evocarli – anzi, registrarli – perché queste diventino vere.
Anche sul Web, dunque, nomen omen, un nome un destino? Se i destini in questione afferiscono alla geopolitica, il presunto legame è tutt’altro che scontato. Ma la crescente importanza di Internet nell’economia e nei giochi governativi sta determinando un curioso (e sinora incruento, per fortuna) fenomeno di transfert: quello delle dispute territoriali verso gli incerti confini del pianeta virtuale.
Il sistema dei “nomi di dominio”, che regola attraverso l’organizzazione Icann la corrispondenza tra una mnemonica espressione alfabetica e l’anonimo numero di dodici cifre che rappresenta l’indirizzo di un server collegato a Internet, si basa su un principio di instradamento ad albero. Nel ricostruire l’indirizzo numerico si parte dal tronco – il nome di dominio principale – e si procede attraverso una o più diramazioni fino al computer cercato.
I tronchi, in questo sistema, sono meglio conosciuti come “top level domain” (Tld) e sono essenzialmente di due tipi. Una prima categoria generica comprende domini come “.com, .gov, .edu” e riguarda quindi attività commerciali, istituzionali, formative e così via.
Una seconda categoria è squisitamente geografica e consente agli Stati di disporre di un proprio confine anche sul Web. Il formato di questi domini è standard e coincide con il “country code” (da cui la sigla “ccTld”).
Non è cosa da poco perché attraverso l’istituzione di autorità o “registri” anche per i vari domini nazionali una banale combinazione come “.it” per l’Italia o “.fr” per la Francia può fare giurisdizione, per esempio in materie come le controversie sul copyright o la tutela della privacy.
Che cosa succede però se il territorio da designare non esisteva prima, non è ancora pienamente riconosciuto, o è a sua volta sottoposto a dispute, magari armate?
In queste situazioni, come del resto avviene anche nella secolarità del mondo, le cose possono complicarsi. Anche perché il mezzo virtuale tende ormai a essere percepito come qualcosa di molto concreto, tanto da indurre certi gruppi di interesse a sfruttare i nomi di dominio per forzare le scelte e le legittimazioni della politica.
Un interessante esempio riguarda la Catalogna, la cui secessione dalla Spagna – ancora ipotetica – sarà oggetto di un referendum popolare quest’autunno. Malgrado il paese non sia tecnicamente in esistenza, il dominio “.cat” è già nell’albero DNS e il suo registro è già attivo. L’approvazione risale al 2005 e la richiesta al marzo del 2004. I nazionalisti scozzesi invece – forse meno “Internet proud” dei catalani – hanno iniziato tardi e pertanto hanno dovuto accettare una soluzione più farraginosa. Nel 2009 il registrant “DotScot.org” ha presentato la richiesta per il dominio “.scot” e ora sostiene di potere aprire la vendita di registrazioni in questi mesi.
Non si presentano però come “country gTLD”, bensì come “community gTLD for the worldwide family of people who have a shared commitment to Scottish identity and culture” – un elegante escamotage…
Tra i casi più peculiari verificatisi negli ultimi anni c’è quello del Sud Sudan, nazione africana di freschissima e fragile indipendenza. Ancora prima della dichiarazione ufficiale, il nascituro Stato aveva chiesto a Icann l’assegnazione di un dominio geografico.
Con qualche remora, visto che l’unica sigla disponibile – dopo il Sudan, “.sd”; e una ormai inesistente “.su”, già assegnata all’ex Unione Sovietica – era una terribile “.ss”. Oggi, con buona pace dei tanti movimenti nostalgici europei che con tutta probabilità si getterebbero sul mortifero acronimo, il dominio “.ss” è ufficialmente assegnato al Sudan del Sud, sebbene in pratica non sia ancora inserito nell’albero del “domain name system”.
Molto più sensibile è l’assegnazione, invocata dalla Repubblica democratica araba del Sarawi, del dominio “.eh” al territorio corrispondente alle ex colonie spagnole nel Marocco. La Spagna ha lasciato il campo nel 1975 e da allora le truppe marocchine che lo controllano per la maggior parte si fronteggiano con gli indipendentisti della Repubblica araba del Fronte Polisario, appoggiati dall’Algeria. Se e quando il dominio dovesse essere attivato dall’Icann, verrà costituito anche un registro “nazionale”: chiunque, tra Marocco e repubblicani sarawi, finisca per gestirlo avrà conquistato una significativa vittoria propagandistica in una guerra aspra e quanto mai reale, densa di vittime e campi profughi.
L’esempio della Repubblica Sarawi deve aver ispirato anche le organizzazioni che si battono per l’indipendenza del Kurdistan, che alla fine dello scorso anno avrebbero presentato formale richiesta di assegnamento di un dominio geografico “.ku” o in alternativa di un dominio generico come “.kur” o “.kurd”. Dominio che potrebbe essere assegnato nel quadro del nuovo regolamento che dal 2012 ha autorizzato la creazione di nomi sponsorizzati da aziende o pertinenti a regioni geografiche prive di status nazionale.
Anche in questo caso, pur non trattandosi di un organo diplomatico alla stregua dell’Onu, la decisione di Icann potrebbe tradursi in un implicito sostegno a una rivendicazione territoriale che da decenni vede Iran, Iraq, Siria e Turchia in sostanziale stato di guerra – una nuova e precisa indicazione di come decade la distinzione tra “reale” e “virtuale” nel nuovo mondo digitale.
Per i movimenti indipendentisti, un dominio Internet è già mezza vittoria.