Mentre da Stoccolma giungeva l’annuncio dell’assegnazione del premio Nobel per la pace alla pakistana Malala Yousufzai e all’indiano Kailash Satyarthi, proseguivano gli scambi di artiglieria tra le guardie di frontiera dei due Paesi, con vittime da entrambe le parti e migliaia di sfollati. Quelli di questa prima metà di ottobre sono stati i più intensi e prolungati scontri da almeno un decennio e hanno sinora provocato circa una ventina di morti tra i civili.
Nel 2003, India e Pakistan siglarono un accordo per il cessate il fuoco lungo la cosiddetta “Linea di Controllo”, che divide il territorio conteso del Kashmir. Sebbene le violazioni siano sempre state piuttosto frequenti, il livello degli scontri è significativamente aumentato in questi ultimi mesi, in coincidenza con l’elezione al governo di Nuova Delhi del nazionalista indù Narendra Modi. Già a luglio si era registrata una pericolosa escalation di violenze alla frontiera, con la morte di almeno sei civili.
L’ottimismo alimentato dalla partecipazione del primo ministro pakistano, Nawaz Sharif, alla cerimonia di insediamento del capo del governo indiano ha ormai lasciato il passo al timore di un nuovo conflitto armato tra le due potenze nucleari, dopo quelli combattuti nel 1947, nel 1965 e nel 1971 (due dei quali proprio per il Kashmir), oltre a un limitato conflitto nel 1999 (nel distretto di Kargil, Jammu e Kashmir).
È lecito interrogarsi sulle ragioni di questa escalation e sul rischio concreto di una nuova guerra tra Pakistan e India.
Nel primo caso, la risposta è piuttosto semplice: non esiste, al momento, alcun incentivo concreto al dialogo tra i due Paesi, mentre un livello controllato di conflittualità sembra giovare agli attori di maggiore rilievo su entrambi i fronti.
Durante la campagna per le elezioni del maggio 2013, Nawaz Sharif aveva indicato nel miglioramento dei rapporti con Nuova Delhi uno dei punti cruciali del suo programma di governo, soprattutto alla luce dei benefici economici che ne deriverebbero. Nell’ultimo anno fiscale, l’interscambio commerciale tra i due Paesi è stato di poco superiore ai due miliardi di dollari, una cifra irrilevante se si considera la dimensione delle due economie, in particolare di quella indiana ($1.877 trilioni, secondo la Banca Mondiale). Dalla metà di agosto, tuttavia, il suo governo è oggetto di contestazioni popolari che lo hanno fortemente indebolito, riducendone i margini di azione. Sarebbero state proprio le aperture nei confronti dell’India a spingere le forze armate pakistane, da sempre ostili a ogni ipotesi di riavvicinamento che non contempli concessioni sul fronte del Kashmir, a orchestrare le attuali proteste, con l’obiettivo di rivendicare la propria supremazia sull’esecutivo, in particolare nella gestione dei più delicati dossier interni e di politica estera (nucleare e relazioni con India, USA e Afghanistan).
L’aumento degli scontri alla frontiera non fa che assecondare la strategia dei militari, rafforzando la percezione nella popolazione pakistana di un’indisponibilità al dialogo da parte indiana. Una concreta apertura nei confronti di Islamabad avrebbe, al contrario, offerto a Sharif un credito da spendere sul fronte interno, consentendogli di resistere con minori difficoltà alle pressioni delle forze armate.
Sul fronte indiano, prevalgono soprattutto considerazioni di carattere interno. Quando era all’opposizione, il Bharatiya Janata Party (BJP) di Narendra Modi ha sempre usato toni molto duri nei confronti dell’approccio delle autorità indiane nei confronti del Pakistan, accusato di ospitare sul proprio territorio vari gruppi terroristici che in passato hanno compiuto attentati in India. Era dunque prevedibile che, una volta al governo, il BJP mostrasse il pugno di ferro nei confronti di Islamabad. Tale orientamento era già rinvenibile nella nomina alla carica di consigliere per la sicurezza nazionale di un ex-dirigente dei servizi segreti, Ajit Doval, da sempre strenuo sostenitore di un’azione decisa contro i gruppi terroristici che operano dal Pakistan. Come dichiarato da vari esponenti delle forze armate indiane, il governo di Modi ha dato disposizioni molto chiare alle guardie di frontiera impegnate sul fronte del Kashmir, invitando i comandanti militari a intensificare le azioni di pattugliamento e a rispondere con estrema durezza ad ogni singolo attacco o provocazione pakistana. L’obiettivo sarebbe, dunque, quello di dare una lezione alle autorità di Islamabad, segnando una forte discontinuità rispetto al morbido approccio dei precedenti governi.
Tale scelta ha, inoltre, delle finalità prettamente politiche. Eletto per portare avanti un processo di profonda riforma dell’apparato economico e amministrativo nazionale, Narendra Modi non è sinora riuscito ad attuare quella terapia d’urto che in molti auspicavano. Nelle elezioni svoltesi in questi ultimi mesi, il BJP ha pagato le difficoltà incontrate in questi primi mesi di governo, non riuscendo a replicare l’eccezionale successo ottenuto alle ultime politiche. Per dare nuovo slancio all’azione dell’esecutivo, Narendra Modi punta molto sulle elezioni che si terranno il 15 ottobre negli Stati di Maharashtra e Haryana. In particolare, un successo nel Maharashtra, Stato in cui si trova la città di Mumbai, vero e proprio centro finanziario del Paese, rafforzerebbe ulteriormente la posizione del governo, garantendogli, inoltre, alcuni seggi in più nella Camera alta del Parlamento (Rajya Sabha), dove la maggioranza è ancora nelle mani del Partito del Congresso. La rottura della decennale alleanza con il partito regionale di destra Shiv Sena rende l’impresa piuttosto ardua, ma l’impegno profuso in prima persona da Narendra Modi durante la campagna elettorale potrebbe rivelarsi decisivo ai fini del successo del BJP. Così come la politica di tolleranza zero adottata nei confronti del Pakistan.
A questo proposito, è importante ricordare come proprio la città di Mumbai, nel 2008, sia stata teatro di una serie di attacchi terroristici attribuiti a gruppi con base in Pakistan, che provocarono la morte di oltre 160 persone. La comunità internazionale elogiò allora il senso di responsabilità messo in mostra dalle autorità indiane, le quali resistettero alla tentazione di una risposta armata. Diversa fu, tuttavia, la reazione dell’opinione pubblica indiana, favorevole a una reazione più dura nei confronti del Pakistan.
La strategia di Narendra Modi poggia su un altro assunto, ossia l’attuale impossibilità, da parte delle forze armate pakistane, di impegnare ulteriori risorse sul fronte indiano, alla luce delle operazioni di contrasto al terrorismo in corso dalla metà di giugno, nelle aree tribali, al confine con l’Afghanistan. Si tratta, tuttavia, di una strategia estremamente rischiosa. Se è vero che l’ipotesi di una guerra su vasta scala appare oggi poco plausibile, non lo è altrettanto la possibilità di un conflitto limitato o di attacchi mirati da parte dei gruppi terroristici attivi nella regione. Uno scenario che danneggerebbe certamente le prospettive economiche indiane, influendo soprattutto sulla fiducia degli investitori stranieri.
L’auspicio giunto da Stoccolma sembra, dunque, destinato a rimanere tale, non trovando nessuno che sia realmente disposto a raccoglierlo.
Mentre da Stoccolma giungeva l’annuncio dell’assegnazione del premio Nobel per la pace alla pakistana Malala Yousufzai e all’indiano Kailash Satyarthi, proseguivano gli scambi di artiglieria tra le guardie di frontiera dei due Paesi, con vittime da entrambe le parti e migliaia di sfollati. Quelli di questa prima metà di ottobre sono stati i più intensi e prolungati scontri da almeno un decennio e hanno sinora provocato circa una ventina di morti tra i civili.