Undici in meno di venti giorni: è questo il bilancio degli attentati dei talebani a Kabul nell’ultima parte del mese di novembre. Dati che richiedono una approfondita riflessione, e che intanto hanno spinto il capo della polizia afghana della capitale a rassegnare le proprie dimissioni (30 novembre).

Molti di questi attacchi hanno preso di mira obiettivi stranieri, un segnale della volontà dei talebani di ottenere il più ampio risalto mediatico possibile e di minare l’immagine del neonato governo di unità nazionale afghano.
L’ultimo attentato, domenica 30 novembre, ha colpito la guesthouse dell’organizzazione non-governativa Partnership in Academics and Development, provocando la morte di tre operatori sudafricani e di un afghano. Nei giorni precedenti, un attacco suicida aveva preso di mira il cuore del quartiere diplomatico, mentre un altro attacco aveva colpito un convoglio dell’ambasciata britannica. Kabul è stata in questi anni teatro di frequenti attentati, ma mai con la frequenza dell’ultimo periodo.
Il 2014 rischia di diventare l’anno peggiore, in termini di vittime, dall’inizio della missione internazionale nel Paese. Nei primi undici mesi dell’anno oltre 4.600 tra soldati e poliziotti afghani hanno perso la loro vita nella guerra – perché di guerra si tratta ormai – contro i talebani.
Il bilancio è molto grave anche per quel che riguarda le vittime tra i civili: oltre 1.500 nei primi sei mesi dell’anno, in aumento di circa il 17% rispetto allo stesso periodo del 2013. Oltre che a Kabul, i talebani hanno rafforzato la loro presenza in diverse zone nel Paese: non solo nel sud-est (tradizionale roccaforte del movimento), ma anche nel nord e nell’ovest dell’Afghanistan.
A meno di un mese dalla conclusione della missione ISAF (International Security Force Assistance), la situazione in Afghanistan appare tutt’altro che rassicurante, tanto da aver spinto il Pentagono a rivedere le regole d’ingaggio del contingente americano (circa 10.000 soldati, dagli attuali 24.000) che opererà in Afghanistan nell’ambito della missione “Resolute Support”, a partire dal primo gennaio 2015. Oltre che alle previste attività di addestramento delle forze di sicurezza locali e alle operazioni mirate contro membri di al-Qaeda, i comandi militari potranno usare le forze aeree e quelle terrestri anche a sostegno delle truppe afghane, in operazioni di contrasto contro le milizie talebane.
Un cambio di strategia netto, sebbene in parte sottaciuto, quello di recente approvato dalla Casa Bianca. Un’ulteriore conferma degli errori di valutazione commessi in fase di pianificazione strategica da parte degli americani e dei loro alleati. In molti avevano storto il naso quando, lo scorso maggio, il presidente Obama aveva annunciato la cessazione, entro la fine dell’anno, di ogni attività di combattimento in Afghanistan. Questi ultimi mesi hanno confermato che le previsioni americane circa le capacità delle forze di sicurezza afghane di contrastare i talebani erano a dir poco ottimistiche, e che rimane ancora molto lavoro da fare.
Ma il tempo a disposizione è ormai talmente limitato da rendere irrealistica ogni ipotesi di successo militare. L’unica strada percorribile sembra essere quella dei negoziati tra il governo afghano e i talebani. A questo proposito, proprio ieri il quotidiano pakistano “Express Tribune” ha riportato la notizia secondo la quale emissari del presidente Ghani starebbero tentando di stabilire contatti con gli insorti, al fine di ravvivare il processo di pace interrottosi durante l’amministrazione Karzai. Il tutto sotto la supervisione delle Nazioni Unite e con il benestare del Pakistan, principale sponsor regionale del movimento talebano. Tuttavia, perché i colloqui abbiano una qualche possibilità di successo, il governo afghano dovrà dare dimostrazione di efficienza, conquistando in fretta quella legittimità sottrattagli dalle lunghe e dannose polemiche che hanno caratterizzato l’ultimo processo elettorale.
Dopo un inizio promettente – segnato dalla firma dell’Accordo Bilaterale di Sicurezza con gli Stati Uniti e dalla riapertura dell’inchiesta sulla maxi-frode da 900 milioni di dollari, che aveva travolto la principale banca del Paese nel 2010 – i limiti dell’accordo siglato a settembre da Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah per la creazione di un governo di unità nazionale stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza. Il Presidente si era impegnato a formare un nuovo gabinetto entro 45 giorni dal suo insediamento, avvenuto il 29 settembre, ormai oltre due mesi fa. E invece non riuscirà a presentare nemmeno una lista dei ministri più importanti, in occasione della conferenza internazionale dei donatori, che si terrà a Londra il 4 dicembre. Il 30 novembre, infatti, ha dichiarato che sarà necessaria ancora qualche settimana di attesa, prima che i nomi che comporranno il nuovo esecutivo vengano svelati. Sinora, Ghani e Abdullah hanno tentato di non far trapelare le divisioni interne, ma la nuova architettura di potere stabilita dall’accordo di settembre sta costringendo entrambi a difficili equilibrismi, ed è forte il rischio che l’intero sistema crolli sotto i colpi dei rispettivi sostenitori. Minaccia che potrebbe ulteriormente aumentare con l’avvicinarsi delle elezioni parlamentari del 2015, quando entrambe le parti saranno ancor meno propense a fare concessioni che le facciano apparire deboli.
Nonostante i buoni propositi che emergeranno quasi certamente dalla Conferenza di Londra, è molto probabile che la comunità internazionale riduca sensibilmente il proprio impegno finanziario a favore dell’Afghanistan nei prossimi anni. Complice la crisi economica, vari governi europei hanno già annunciato un ridimensionamento del contingente militare impiegato nell’ambito della missione “Resolute Support”. Di recente, ad esempio, le autorità italiane hanno fissato a 500 il numero di soldati da lasciare in Afghanistan per attività di addestramento, 350 in meno rispetto agli annunci iniziali.
Tutto questo si traduce nella necessità per il Paese di emanciparsi al più presto dalla dipendenza dagli aiuti internazionali. Ma si tratta di un obiettivo irraggiungibile, almeno nel breve-medio termine. Il governo di Ghani si trova già quest’anno a dover fare i conti con un buco di bilancio di circa 500 milioni di dollari, una cifra significativa per un’economia il cui valore complessivo supera a stento i 20 miliardi. Le entrate statali sono aumentate negli ultimi 14 anni, ma non garantiscono ancora la sostenibilità della spesa pubblica, attestandosi attorno all’11,5% del Prodotto Interno Lordo. La droga rappresenta tuttora una quota cospicua (e crescente) della produzione complessiva nazionale, circa il 15%. Infine, molto tempo sarà necessario per portare avanti una credibile azione di contrasto alla corruzione, diffusa in ogni ambito della vita pubblica.
Si tratterebbe di improbe sfide per qualsiasi governo, a maggior ragione per quello afghano, nato solo grazie alle forti pressioni degli americani e privo persino di un riconoscimento costituzionale. I talebani sono consapevoli delle crescenti difficoltà cui andrà incontro il governo di unità nazionale co-diretto da Ghani e Abdullah, e appaiono fortemente intenzionati a capitalizzare al più presto tale situazione, imponendosi nuovamente come principale attore sulla scena politica nazionale.
I recenti attacchi di Kabul rischiano dunque di rappresentare un chiaro messaggio per la comunità internazionale: l’Afghanistan potrebbe essere ormai irrimediabilmente perduto.
Undici in meno di venti giorni: è questo il bilancio degli attentati dei talebani a Kabul nell’ultima parte del mese di novembre. Dati che richiedono una approfondita riflessione, e che intanto hanno spinto il capo della polizia afghana della capitale a rassegnare le proprie dimissioni (30 novembre).