Il neo-presidente messicano lancia un progetto kennediano di partnership tra le Americhe. Ed è pronto a irrigidire la politica migratoria con la creazione di una nuova polizia di frontiera. Ma il suo sovranismo economico si scontra con l’America First. E può infiammare lo scontro commerciale
Quando Andrés Manuel López Obrador è stato eletto presidente del Messico lo scorso 1 luglio, Donald Trump è stato uno dei primi ad essersi congratulato con lui per la vittoria. E dopo il messaggio su Twitter, i due hanno anche scambiato qualche parola al telefono: la chiacchierata deve essere andata bene, se Trump ha detto di «credere davvero che i rapporti saranno molto buoni». López Obrador ha intenzione di invitare Trump alla cerimonia di insediamento il prossimo dicembre. Ma questo clima disteso potrebbe non durare a lungo.
I due leader nordamericani sono molto più distanti di quanto molti giornali non abbiano fatto credere ma è vero che hanno diverse cose in comune. Per cominciare, entrambi sono definiti populisti, Trump di destra e López Obrador di sinistra. Entrambi si dipingono come outsider contro l’establishment. Entrambi tendono ad attaccare i giornali che li criticano – Trump li chiama fake news, López Obrador prensa fifí ovvero “stampa borghese”. Entrambi sono nazionalisti in economia e più isolazionisti in politica estera rispetto ai loro predecessori.
Lo stesso inquilino della Casa Bianca sembrerebbe aver ritrovato qualcosa di sé in López Obrador, tanto da averlo soprannominato, in privato, “Juan Trump”. Ma mentre buona parte della retorica di Donald Trump si basa sull’odio verso i messicani, Andrés Manuel López Obrador (Amlo) si è costruito il consenso attraverso un discorso inclusivo rivolto principalmente ai poveri. Ha sì usato parole anche molto crude contro il suo omologo – ha paragonato i suoi discorsi sugli ispanici a quelli dei nazisti verso gli ebrei, ad esempio –, ma non è un antiamericano.
Amlo, per sua stessa ammissione, non cerca lo scontro con il presidente statunitense ma la collaborazione. In campagna elettorale ha abbandonato lo storico scetticismo nei confronti del Nafta – il trattato di libero scambio tra i tre Paesi dell’America del nord – e ha detto di volere una relazione amichevole e proficua con Washington, riconoscendo l’importanza cruciale della partnership economica e strategica. Allo stesso tempo ha promesso di presentare un ricorso alle Nazioni Unite per impedire la costruzione del muro, annunciato una catena umana di protesta contro la militarizzazione della frontiera americana e giurato che il Messico non verrà più trattato come una piñata.
Questo doppio discorso, da un lato diplomatico e dall’altro combattivo, rende difficile immaginare quale possa essere la postura generale di López Obrador verso gli Stati Uniti. Specie considerando che nel corso della campagna elettorale ha già mitigato molte delle sue posizioni e, ora che è presidente, si sta mostrando ancora più moderato.
Come prova della sincera intenzione di voler costruire buoni rapporti con Trump, Amlo ha detto che proporrà al presidente americano di stipulare un programma di collaborazione economica tra l’America settentrionale e l’America centrale. Si tratterrebbe, nei disegni di Amlo, di una sorta di rifacimento dell’Alleanza per il progresso, voluta nel 1961 da John F. Kennedy per l’America latina. Un piano, cioè, di aiuti economici e di incentivi allo sviluppo per migliorare le condizioni di vita in Messico e in Centroamerica ed eliminare alla radice il problema dell’emigrazione verso gli Stati Uniti. «Presenteremo questa proposta quando trionferemo, perché non si risolve nulla con l’uso della forza, non si risolve nulla costruendo muri e, soprattutto, non si risolve nulla militarizzando le frontiere. I problemi si risolvono se c’è produzione, se c’è lavoro, se c’è benessere per il nostro popolo», queste le parole esatte di López Obrador durante la campagna elettorale.
Anche tralasciando che l’originale Alleanza per il progresso si rivelò un sostanziale fallimento, Amlo avrà probabilmente grosse difficoltà a convincere Trump a sottoscrivere un’iniziativa così ambiziosa, costosa, dal lungo termine e soprattutto contraria all’orientamento politico della Casa Bianca. Il presidente americano sta infatti portando gli Stati Uniti fuori dal grande schema delle relazioni internazionali, non ama gli accordi multilaterali e ha più volte minacciato di tagliare drasticamente gli aiuti già esistenti proprio al Messico e all’America centrale.
Pochi giorni fa il futuro ministro delle Finanze messicano Carlos Urzúa ha presentato più nello specifico uno dei progetti collegati all’ipotetica Nuova Alleanza per il progresso: una striscia di 30 chilometri lungo il confine settentrionale, che contenga tutte le principali città frontaliere (Tijuana, Juárez, Mexicali, Reynosa), da adibire a zona economica speciale. L’imposta sul valore aggiunto verrebbe dimezzata dall’attuale 16 all’8%, in modo da favorire gli investimenti e promuovere la crescita della regione. Nonostante l’iniziativa si prefigga, in ultima istanza, anche di ridurre le migrazioni verso gli Stati Uniti, difficilmente incontrerà l’approvazione di Trump. Il presidente già accusa il Messico di rubare il lavoro agli americani ed è molto duro con quelle imprese – specialmente automobilistiche e manifatturiere – che spostano la produzione oltre frontiera per approfittare del basso costo del lavoro.
Amlo può offrire a Trump convergenza sulla necessità di aumentare gli stipendi minimi in Messico, un punto che Washington cerca da mesi di spingere ai negoziati per l’aggiornamento del Nafta ma che viene respinto dall’attuale amministrazione di Enrique Peña Nieto. E, piuttosto sorprendentemente, López Obrador potrebbe anche garantire alla Casa Bianca ancora più rigore nella gestione dei flussi irregolari provenienti dal Centroamerica.
In campagna elettorale, Amlo si è schierato nettamente dalla parte dei migranti – tutti, non solo di quelli messicani – che lasciano la loro patria in cerca di migliori opportunità di vita. Ha insistito sulla necessità di rispettare e proteggere i profughi centroamericani invece di reprimerli e detto che il Messico dovrebbe perciò smetterla di fare il lavoro sporco per gli Stati Uniti. Washington, infatti, finanzia Città del Messico perché faccia da cuscinetto contro l’immigrazione proveniente dal Triangolo del nord: nel 2017 il Messico ha deportato 78.309 centroamericani e altri 43.062 nella prima metà del 2018. In Messico i migranti sono frequentemente vittime di violenza ed estorsione, sia da parte delle gang criminali che dei pubblici ufficiali: i reati nei loro confronti restano impuniti nel 99% dei casi.
Queste dichiarazioni lasciavano intendere che sotto López Obrador la collaborazione tra i due vicini in ambito migratorio sarebbe quantomeno rallentata, anche tenendo conto del fatto che il presidente eletto aveva criticato pesantemente molte delle nuove politiche di Donald Trump: aveva ad esempio definito la separazione dei bambini dai loro genitori una pratica «arrogante, razzista e disumana». Il ministro designato alla Sicurezza pubblica Alfonso Durazo ha invece detto a Bloomberg che l’amministrazione Amlo ha intenzione di creare una nuova forza di polizia di frontiera da schierare lungo entrambi i confini per fermare da un lato l’immigrazione irregolare da sud e dall’altro il traffico di armi da fuoco proveniente dal nord. Altri dettagli non sono stati forniti, se non che sarà un corpo altamente specializzato.
Nonostante le possibili affinità, Trump e López Obrador sono destinati a scontrarsi soprattutto sul piano economico: America First e México Primero sono due approcci incompatibili. Donald Trump si prefigge di ridurre il deficit commerciale con il Messico – 64 miliardi di dollari circa nel 2017 – principalmente attraverso la rinegoziazione del Nafta, che intende adattare alla sua visione protezionistica rendendo meno vantaggiose le delocalizzazioni per le imprese. Nel frattempo ha imposto dazi del 10 e 25% sulle importazioni di alluminio e acciaio, a cui il Messico ha risposto con contro-tariffe per 3 miliardi.
López Obrador insegue invece l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare ed energetica. Vuole risollevare l’agricoltura del sud in modo che il Messico possa produrre da sé il cibo che consuma, senza acquistare dall’estero alimenti basilari come il mais, i fagioli o le uova. E contemporaneamente vuole riportare le raffinerie messicane ai livelli di produttività pre-crisi, costruendone di nuove, per azzerare le importazioni di combustibile entro tre anni.
Ammesso che tutto ciò si riveli possibile, la sovranità alimentare e petrolifera di Amlo danneggerebbe in primo luogo gli Stati Uniti. Oltre la metà di tutta la benzina consumata in Messico proviene dagli Usa e l’anno scorso le importazioni messicane di prodotti petrolchimici hanno garantito alle compagnie americane profitti per 23 miliardi e agli States un surplus di 15 miliardi nel commercio energetico. Il Messico è inoltre il primo mercato al mondo per il mais e per il pollame statunitensi.
Mentre Trump ha intenzione di pareggiare la bilancia commerciale con il Messico, insomma, López Obrador finirebbe per farla pendere ancora di più dalla sua parte. Conciliare questa differenza non sarà facile. Per venerdì 13 è intanto previsto il primo incontro tra Amlo e alcuni funzionari di alto livello dell’amministrazione americana: il segretario di Stato Mike Pompeo, la segretaria della Sicurezza interna Kirstjen Nielsen e il segretario del Tesoro Steven Mnuchin si recheranno a Città del Messico per fare la conoscenza del presidente eletto e discutere – sembra – di immigrazione e di progetti di sviluppo economico. Tutte le parti, almeno per il momento, si dicono ottimiste.
@marcodellaguzzo
Il neo-presidente messicano lancia un progetto kennediano di partnership tra le Americhe. Ed è pronto a irrigidire la politica migratoria con la creazione di una nuova polizia di frontiera. Ma il suo sovranismo economico si scontra con l’America First. E può infiammare lo scontro commerciale