Un esperimento di laboratorio o un virus creato ad hoc per motivi militari o strategici? La Cina impedisce le inchieste nazionali e internazionali. Ma una ricostruzione documentata fa dedurre qualcosa di diverso…
A quasi due anni dall’inizio della pandemia che ha modificato il nostro mondo, restano ancora aperti e apparentemente insolubili gli interrogativi su come, e dove, abbia avuto origine il virus alla base di tutto ciò. Il poco che si sa è confuso, e continua ad essere più una serie di ipotesi di lavoro che di piste percorribili. Questo, perché i ripetuti tentativi di approfondire la questione sono caduti in un buco nero intriso di sensibilità politiche difficili da eliminare. La Cina, fin dall’esplodere della pandemia, è stata comprensibilmente restia all’essere incolpata in modo diretto, e ha reagito sbarrando la porta. E molti organismi internazionali, e primo fra tutti l’Organizzazione mondiale della sanità, non hanno voluto precludersi la possibilità di future indagini compiacendo l’estrema sensibilità cinese. Da tutto questo sono nati dubbi, complottismi, e una frustrazione che perdura.
Non è la prima volta che l’istinto primordiale verso la segretezza del Partito comunista cinese aumenta i sospetti nei confronti del suo operato, ma è bene evitare di trarre rapide conclusioni sulle origini della pandemia da questa caratteristica. È vero che sia i gruppi di esperti medici che le missioni dell’Organizzazione mondiale della sanità che sono andate in Cina con l’intenzione di fare luce sulle origini di questo disastro sanitario sono tornate indietro con poco di fatto, lasciando ampio spazio alle illazioni di chi già non era incline a fidarsi del governo cinese. Le abitudini barocche della diplomazia Onu, e dei suoi dipartimenti, hanno solo aumentato tale diffidenza, fra frustranti silenzi, veti cinesi, e mezze risposte a quesiti urgenti. Ma invece di interpretare tali mancanze come il segnale di un insabbiamento colpevole di un esperimento di laboratorio sfuggito al controllo degli scienziati, per esempio, o di un virus creato ad hoc per motivi militari o strategici, va guardata più da vicino la Cina, e il suo modo di distribuire informazioni.
L’origine del virus
Finora, l’accusa volta a Pechino è quella di insufficiente trasparenza. Un’accusa che si è andata rafforzando davanti al modo in cui il Paese ha precluso l’accesso alla città di Wuhan, al mercato dove si pensa abbia avuto origine il virus che sta causando la pandemia, e all’Istituto di Virologia di Wuhan, un istituto ad alta sicurezza dove vengono studiati patogeni presenti in natura che possono contaminare gli esseri umani. Qui è anche dove sono stati fatti i primi test che hanno confermato l’esistenza del Covid-19. A complicare le cose, per chi è portato a vedere complotti ovunque, è l’esistenza di un centro di ricerca sul Coronavirus proprio all’interno dell’Istituto di Virologia di Wuhan, diretto dalla scienziata Shi Zhengli. Shi stessa, come del resto tutta la sua squadra, è risultata sieronegativa al Covid-19 nel marzo del 2020, rendendo ancora più improbabile dunque la teoria di una “fuga di laboratorio” del virus dall’Istituto al resto del mondo, nel corso di un errore di maneggiamento – che non potrebbe non aver contagiato almeno uno degli addetti al laboratorio.
Ma se la tendenza alla segretezza è aumentata in modo significativo con l’arrivo di Xi Jinping al potere, non si tratta pertanto di una novità assoluta.
Lo stesso era già accaduto nell’inverno del 2002-2003, quando esplose l’epidemia di SARS, probabilmente a Guangzhou o nei suoi dintorni, e che portò a 774 decessi: a quell’epoca la Cina era più libera di quanto non sia oggi, e il gruppo mediatico Guangzhou Zhoukan, famoso per le sue inchieste approfondite e coraggiose, venne punito anche per la sua volontà di fare luce su quanto avvenuto in quella circostanza – su come si era diffuso il virus, quante fossero le vittime, e se c’erano state delle coperture. Oggi, i periodici del gruppo Zhoukan sono stati domati, e le loro inchieste non riportano altro che quanto pre-approvato a livello centrale. Da notare che è stata proprio Shi Zhengli, nel laboratorio di Wuhan guardato con sospetto da più parti, a dimostrare che la SARS del 2002 ebbe un’origine animale, ovvero, che il virus sarebbe mutato e saltato da pipistrelli all’uomo. Si tratta della teoria detta dello spillover, che è la stessa su cui molti stanno ora indagando anche per il Covid-19 – e di nuovo, molti scienziati che cercano di capire come questo virus abbia potuto apparire “dal nulla” e attaccare il sistema respiratorio umano stanno guardando a un possibile contagio avvenuto tramite contatto con pipistrelli.
La connessione fra le ricerche del laboratorio e il Covid proverrebbe da altri studi portati avanti all’interno di alcune grotte nei dintorni di Wuhan, popolate da pipistrelli, e dalla scoperta che questi siano dei “contenitori di coronavirus” che potrebbero, per l’appunto, saltare dai pipistrelli agli umani. Nulla però porta a pensare con serietà che queste ricerche abbiano effettivamente “risvegliato” dei virus latenti, favorendone la fuga e il salto dai pipistrelli all’uomo.
Se pensiamo al modo in cui la stampa estera è stata aggredita nello Henan nel mese di agosto, dopo le violente inondazioni che hanno colpito la regione, e alle scarse informazioni che si hanno su quel disastro naturale, capiamo che ogni notizia, in particolare negativa, è trattata come qualcosa da pilotare dall’alto – e come il resto del mondo interpreta il ruolo della stampa non interessa affatto il regime cinese. La stampa nazionale, infatti, è interamente sottoposta al controllo statale, e ha il ruolo di formare e orientare l’opinione pubblica. Non quello di aiutare i cittadini a scoprire possibili carenze ufficiali, o giocare un ruolo da quarto potere a cui questa ambisce in regimi politici dotati di libertà di stampa.
La mancanza di trasparenza dunque non è la prova di una copertura di un atto criminale, o di quella “fuga di laboratorio” di cui hanno parlato i commentatori più inclini alle teorie torbide. Quanto sappiamo dunque su quello che è successo, e quali sono gli indizi su cui possiamo lavorare per ricostruire in che modo questa tragedia si è abbattuta sul pianeta?
A tutt’oggi, tutto punta a Wuhan: una città di più 11 milioni di abitanti, solcata dai fiumi Han e Yangtse. È un famoso polo della produzione automobilistica, ma la stampa internazionale se ne occupò in particolar modo nel 1998, quando la città era stata colpita da violente inondazioni, che costarono la vita a più di 4000 persone. Già allora, i tentativi di informare su quanto era avvenuto si scontrarono con l’immediata chiusura alla stampa estera dei dintorni alluvionati della città – mentre alla stampa statale venne ordinato di diffondere solo le cifre distribuite da Xinhua (l’agenzia di stampa cinese Nuova Cina). Insomma, nulla di nuovo nel ricorso alla segretezza, ma il riapparire di un istinto consolidato.
I mercati a Wuhan e la vendita di animali
Come quasi tutte le città asiatiche, Wuhan ha diversi mercati all’aperto di prodotti freschi – che si tratti di frutta e verdura o di carne e altri prodotti. Di nuovo, vediamo come alcuni cambiamenti siano stati introdotti in seguito allo scoppio della SARS nel 2003: dopo quella data infatti molti mercati in Cina e a Hong Kong hanno smesso di vendere animali vivi o di uccidere polli, conigli o altri animali commestibili davanti agli occhi dei clienti. Si trattò di una decisione molto combattuta, dal momento che per molta cucina cinese la freschezza assoluta degli alimenti è considerata della massima importanza, intendendo con “freschezza” animali appena macellati. Ma il rischio di contaminazione da animali vivi è stato reputato eccessivo, e oggi in molti mercati della regione dei grossi frigoriferi sostituiscono le gabbie con gli animali ancora vivi, per quanto molti clienti siano ancora restii ad accettare quest’idea. Così, a quanto sembra, alcuni dei venditori di uno dei mercati di Wuhan, il Mercato del Pesce di Huahan (quello connesso ad alcune delle prime infezioni da Covid-19, distante circa 19 chilometri dal laboratorio dell’Istituto di Virologia di Wuhan) ignoravano il regolamento, e vendevano sotto banco animali vivi, incluso specie protette.
Secondo studi pubblicati in giugno, infatti, Huanan sarebbe stato uno dei quattro mercati dove veniva venduta carne di animali selvatici, o dove gli stessi animali erano venduti vivi per essere macellati dall’acquirente. Fra questi, anche gatti civetta e procioni, due degli animali che hanno potuto servire da intermediario fra i pipistrelli e gli esseri umani, e da cui si pensa dunque che la SARS abbia potuto fare un salto di specie. Fra le specie in vendita nei mercati di Wuhan sono state trovate almeno 31 specie protette, secondo quanto pubblicato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Nanchong.
Inoltre, il mercato di Huahan sarebbe l’epicentro del primo episodio di superspreader – ovvero, di diverse persone che hanno contratto il virus e che frequentavano il mercato. Se i due possibili poli dello sviluppo del virus sono oggi facilmente identificabili, il problema nel cercare di analizzare più da vicino studiando la sequenza genetica del virus, per esempio, e cercando di paragonarla ad altri esemplari per poterne studiare la mutazione, si scontra con la segretezza di cui abbiamo parlato sopra. Pechino ha consentito agli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità una permanenza di qualche ora al laboratorio, e appena di un’ora al mercato.
A dare maggior peso all’ipotesi del mercato è anche stata la conferma che alcuni animali selvatici in vendita a Huahan si sono rivelati positivi al coronavirus, facendo pensare che fossero entrati in contatto con un qualcuno di contaminato – un altro animale, o un lavoratore legato al mercato?
A dare meno credito alla teoria complottista c’è il fatto che molti dei virus più gravi con cui l’umanità ha dovuto fare i conti nell’ultimo secolo provenivano proprio da animali: oltre alla SARS, anche la MERS-CoV, esplosa in Medio Oriente e con probabile origine nei cammelli, Ebola, proveniente forse da pipistrelli, forse da altri animali selvatici. Non solo: il microbiologo statunitense Robert Garry, dell’Università di Tulane, ha studiato con attenzione la distribuzione geografica dei primi casi di Covid conclamati, trovando una serie di grappoli di contagio proprio intorno al mercato Huahan, ma assolutamente nessun caso nei dintorni dell’Istituto di Virologia.
Fra tutte, dunque, quella del mercato e del consumo illecito di selvaggina o di animali rari con potenziale “salto” del virus da una specie animale alla nostra continua a sembrare la più convincente, anche guardando, per così dire, ai precedenti storici.
La riluttanza cinese nel dare accesso alle prime sequenze del virus ritrovate nella città di Wuhan nel dicembre 2019, e a lasciare che i ricercatori si muovano liberamente per Wuhan, il mercato, gli ospedali e il laboratorio di ricerca fanno sì che ricostruire con certezza quanto avvenuto, e cercare di trarne importanti lezioni per il futuro è di notevole difficoltà. Ma nulla di questo prova che si sia davanti a una copertura ufficiale ma piuttosto, che ci si trovi davanti alla Cina e alla sua chiusura sul resto del mondo. Le informazioni disponibili al momento sono queste. Non è da escludere che un numero maggiore di ricercatori possa in futuro avere più elementi per completare il quadro, e che questo possa apparire in parte diverso da quello che è stato possibile ricostruire finora, ma questa è un’ipotesi per il futuro. Gli elementi attuali fanno pensare che ad averci messi nei guai una volta di più sia la nostra relazione con gli animali selvatici, anche quelli che dovrebbero essere specie protette – una relazione utilitaria che è forse più diffusa in certi luoghi della Cina che non altrove, ma che non è certo del tutto assente nel resto del mondo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Un esperimento di laboratorio o un virus creato ad hoc per motivi militari o strategici? La Cina impedisce le inchieste nazionali e internazionali. Ma una ricostruzione documentata fa dedurre qualcosa di diverso…