In molti furono colti di sorpresa quando, a giugno 2014, il Pakistan annunciò l’avvio di una vasta campagna anti-terrorismo denominata ‘Zarb-e-Azb’ (dal nome della spada del Profeta Maometto), che avrebbe finalmente smantellato le infrastrutture terroristiche nell’agenzia tribale del Nord Waziristan, base logistica per varie formazioni attive anche in Afghanistan.
Le operazioni vennero intensificate dopo l’attacco terroristico che a dicembre dello stesso anno costò la vita a quasi 150 persone, compresi oltre 130 studenti di una scuola di Peshawar. In quell’occasione, le autorità misero a punto anche un Piano di Azione Nazionale suddiviso in 20 punti che comprendeva, tra le altre cose, la revoca della moratoria sulla pena di morte, misure per il contrasto al finanziamento al terrorismo e il rafforzamento dell’Autorità Nazionale Anti-Terrorismo.
Stando a quanto riportato dal South Asia Terrorism Portal, nel 2015 i civili che hanno perso la vita in episodi di terrorismo sono stati 940 (dato migliore dal 2006), in forte diminuzione rispetto ai 1.781 dell’anno precedente (nel 2012 e nel 2013 erano stati oltre 3.000). In un solo anno, gli attacchi terroristici sono diminuiti di circa il 56%, a dimostrazione delle gravi difficoltà attraversate da alcuni dei principali gruppi presenti sul territorio nazionale. Secondo quanto dichiarato dalle autorità di Islamabad, nel corso dell’operazione Zarb-e-Azb sarebbero sinora stati uccisi oltre 3.600 presunti terroristi e altre migliaia sarebbero finite in arresto.
Dati che, almeno a prima vista, sembrano indicare una vera e propria svolta del Pakistan nella sua personale lotta contro il terrorismo, fenomeno che ha rischiato di isolare il Paese dal resto della comunità internazionale e ne ha sinora duramente condizionato lo sviluppo economico.
Le ricadute positive di questo nuovo approccio sono state immediatamente visibili: ad aprile dello scorso anno, sono stati firmati gli accordi per la realizzazione del cosiddetto ‘Corridoio Economico Pakistan-Cina’ (CEPC), un ambizioso piano infrastrutturale del valore complessivo di 46 miliardi di dollari, finanziato da Pechino e finalizzato a rafforzare i collegamenti tra i due Paesi, che potrebbe rappresentare un importante volano per la crescita del Paese e dell’intera regione.
A fronte di un generale miglioramento del quadro di sicurezza e dei segnali positivi registrati in ambito economico, ci si chiede se tali progressi siano duraturi e possano avviare un processo di reale trasformazione del Paese.
Terrorismo
Come già accennato, a partire dal giugno 2014, si è assistito a una significativa intensificazione dell’azione di contrasto al terrorismo, con una conseguente riduzione del numero di attacchi su tutto il territorio nazionale, in particolare nelle zone al confine con l’Afghanistan e a Karachi, capoluogo della provincia del Sind, ove l’intervento delle forze di sicurezza ha favorito anche una graduale riconfigurazione degli equilibri politici. Le autorità di Islamabad, tuttavia, sono state accusate anche in questa circostanza di aver perseguito un approccio selettivo, prendendo di mira solamente i gruppi con un’agenda anti-pakistana e in particolare il Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP) – responsabile, dal 2007 in poi, della maggior parte degli attentati compiuti sul territorio pakistano – e varie formazioni ad esso collegate. Al contrario, altri gruppi (come la Rete degli Haqqani) che hanno in passato utilizzato il Pakistan come base logistica per condurre attacchi in Afghanistan sarebbero stati preventivamente messi a conoscenza dei piani delle forze di sicurezza, avendo così il tempo di rifugiarsi oltre confine. Le operazioni militari hanno risparmiato anche le formazioni con base nel Punjab, poiché tuttora considerate asset strategici, da utilizzare per tenere viva la disputa sui territori del Kashmir.
Tale duplice approccio riflette per molti versi il paradigma strategico da molto tempo seguito dal Pakistan, che vede nell’utilizzo delle proxies una componente fondamentale della sua politica regionale. Pur senza rinunciare a tale strumento, l’obiettivo delle autorità pakistane potrebbe essere quello di ripristinare una situazione simile a quella esistente già prima del 2007, quando le violenze nel Paese si mantenevano su livelli relativamente contenuti (tra 2004 e 2006, le vittime civili sono state in media 491, secondo i dati del South Asia Terrorism Portal) ed erano prevalentemente circoscritte ad alcune determinate aree. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, le condizioni di riferimento sono mutate e il fenomeno del terrorismo è più diffuso e radicato rispetto al passato. Sarà dunque necessario mantenere costantemente alta la pressione militare sui gruppi terroristici presenti sul territorio e rafforzare progressivamente le capacità di intelligence, se si vorrà conseguire l’obiettivo di cui sopra.
Nel medio-lungo termine, tuttavia, tali misure dovranno essere necessariamente inserite in una più ampia strategia che abbini alla componente militare misure che favoriscano la progressiva affermazione di una nuova narrativa anti-terrorismo. Alcune sono state già inserite nel Piano di Azione Nazionale sopra menzionato, ma la loro applicazione è stata sinora scostante e lacunosa. A fine febbraio, le autorità hanno comunicato la chiusura di 254 seminari religiosi a causa del loro presunto coinvolgimento in attività estremiste: di questi, tuttavia, solo due nella provincia del Punjab, la più popolosa del Paese e spesso indicata come importante bacino di reclutamento.
Relativamente al contrasto ai gruppi terroristici, come già accennato, l’impegno pakistano è stato da molti descritto come parziale. Ne è una conferma la persistente libertà di cui godono i membri di Jamaat-ud-Dawa (JuD), organizzazione collegata a Lashkar-e-Taiba (responsabile degli attentati di Mumbai del 2008), ancora oggi promotrice di un’aspra retorica anti-indiana. Sebbene negli ultimi anni tale formazione abbia ridotto il proprio coinvolgimento in attività terroristiche (secondo alcuni, su pressione delle autorità pakistane), essa rappresenta una potenziale fonte di instabilità per il Paese nel medio-lungo periodo. Come riportato dalla stampa locale, negli ultimi mesi alcune decine di ex-militanti di JuD sono stati arrestati per il loro presunto sostegno allo Stato Islamico. Sebbene la leadership del gruppo pakistano abbia preso le distanze dal sedicente Califfato, le due formazioni presentano affinità ideologiche che favoriscono il fenomeno appena evidenziato.
Un differente approccio nei confronti di JuD e di altri gruppi ad esso affini richiederebbe necessariamente un mutamento della politica estera pakistana, in particolare rispetto alla gestione dei rapporti con l’India. A questo proposito, segnali positivi sono emersi in seguito all’attentato del 2 gennaio scorso contro la base aerea indiana di Pathankot, la cui responsabilità è stata attribuita dalle autorità di Nuova Delhi a Jaish-e-Mohammed (JeM), formazione basata nel Punjab proprio come JuD. In tale circostanza, infatti, il Pakistan ha reagito offrendo la propria collaborazione alle attività giudiziarie indiane e pochi giorni dopo ha messo in custodia cautelare Masood Azhar, leader di JeM, e altri membri del gruppo. Anche in passato, tuttavia, le autorità di Islamabad avevano mostrato una risolutezza di facciata presto esauritasi senza produrre risultati apprezzabili.
Economia e politica
Nel 2013 il Pakistan aveva siglato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito di 6,6 miliardi di dollari, necessario per evitare il default. Da allora, il quadro economico ha subìto un netto miglioramento: nell’ultimo anno fiscale (2015-16) il Prodotto Interno Lordo (PIL) è cresciuto del 4,5%, il tasso più alto mai registrato dal 2007. Più in generale, tutti i principali indicatori macroeconomici (deficit fiscale; riserve di valuta estera; inflazione) hanno fatto registrare una performance positiva, rafforzando nel complesso la posizione del Paese. Il raggiungimento di tali risultati, però, è stato possibile soprattutto grazie al calo del prezzo del petrolio, che ha determinato un netto miglioramento della bilancia commerciale (il Pakistan è un importatore netto di prodotti energetici), offrendo alle autorità più ampi margini di intervento. L’occasione offerta dal cattivo andamento del mercato petrolifero sembra tuttavia essere stata in parte sprecata dal governo di Islamabad, incapace di avviare riforme strutturali necessarie per una crescita futura. Rispetto alla maggior parte degli altri Paesi in via di sviluppo (fatta eccezione per gli esportatori di risorse energetiche e minerarie), in Pakistan il rapporto tra entrate fiscali e PIL è ancora molto basso (circa l’11%), elemento che mette in dubbio la sostenibilità del bilancio nel medio-lungo termine. Il Paese continua a soffrire gravi difficoltà nell’attrarre investimenti dall’estero a causa dell’instabilità del quadro di sicurezza, della carenza di infrastrutture e dell’elevato livello di corruzione (nell’ultimo indice di Transparency ha ottenuto uno score di 30 su 100, collocandosi al 117esimo posto su 168 Paesi).
Le autorità pakistane ripongono grandi speranze sul Corridoio Economico Cina-Pakistan già in corso di realizzazione. Secondo le stime della Banca Mondiale, tale progetto potrebbe contribuire a determinare un aumento al 5,4% del tasso di crescita pakistano di medio periodo. Tuttavia, affinché gli investimenti di Pechino abbiano realmente un effetto moltiplicatore sull’economia di Islamabad e portino effettivi benefici a tutta la popolazione sarà necessaria l’adozione di riforme che nel breve periodo rischierebbero di alimentare ulteriore instabilità, poiché verrebbe meno quel contratto sociale in base al quale lo Stato pakistano, incapace di offrire adeguati servizi alla popolazione, ha deciso di abdicare al proprio ruolo di regolatore, favorendo la proliferazione di attività economiche irregolari. Tuttavia, l’attuale classe politica sembra mancare della forza necessaria per implementare tali riforme, mentre i militari hanno già in passato dimostrato di essere sprovvisti di adeguate capacità in ambito economico.
Contrasto al terrorismo e sviluppo economico sono temi inestricabilmente legati tra di loro. Sinora, in entrambi questi ambiti, il Pakistan sembra aver conseguito successi di portata limitata, i cui effetti positivi sembrano destinati a svanire in tempi brevi se non saranno seguiti da misure più drastiche, realmente suscettibili di trasformare un Paese altrimenti destinato a rimanere ancora a lungo in una posizione di pericolosa precarietà.
Daniele Grassi è Senior Analyst di IFI Advisory