La longa manus dei militari infligge un grave colpo alle ambizioni del governo di Nawaz Sharif. Le ricadute interne e le conseguenze sul contesto regionale dell’attuale crisi politica.

A poco più di un anno dalle elezioni politiche che hanno sancito il trionfo del Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N) del primo ministro Nawaz Sharif, il Pakistan è di nuovo alle prese con una crisi politica che rischia di compromettere gravemente il processo di maturazione democratica in corso.
La vittoria elettorale di Sharif nel maggio 2013 aveva rappresentato il primo caso di passaggio di poteri tra due governi democraticamente eletti nella storia del Paese, alimentando molte speranze circa un possibile rafforzamento del ruolo delle autorità civili rispetto a quelle militari, da sempre predominanti nella vita politica nazionale. Speranze vane, se si considera quel che sta accadendo nel Paese.
Il 14 agosto, Imran Khan e Muhammad Tahir ul-Qadri, leader rispettivamente del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) e del Pakistan Awami Tehreek (PAT), hanno dato il via a un movimento di protesta popolare, accusando il governo di irregolarità nel corso delle ultime elezioni e rispedendo al mittente la proposta fatta in extremis da Nawaz Sharif di costituire una commissione speciale che facesse luce sui presunti brogli elettorali. Migliaia di persone si sono riversate a Islamabad, paralizzando intere aree della capitale e assediando il Parlamento. Imran Khan ha invitato la popolazione alla disobbedienza civile, incitandola a non pagare più le tasse, e ha spinto i deputati del PTI a rassegnare le dimissioni dal Parlamento e dalle assemblee legislative delle varie province pakistane (eccezion fatta per il Khyber Pkhtunkhwa, dove il PTI guida il governo).
Lo scopo dichiarato delle proteste è quello di spingere il governo a rassegnare le dimissioni. Tuttavia, al di là dei proclami dei due leader e della genuinità dei sentimenti di una parte dei dimostranti, dietro questa cosiddetta “marcia rivoluzionaria” sembra esserci ancora una volta lo zampino dei militari, intenzionati a ribadire la loro incontrastata leadership sulla scena politica nazionale.
Il rapporto tra l’attuale capo del governo e le forze armate è sempre stato burrascoso. La vittoria di Sharif alle ultime elezioni era stata preceduta da un patto siglato con i militari, con il quale il leader del PML-N si impegnava sostanzialmente a mantenere la propria azione entro dei limiti fissati proprio dalle forze armate, in particolare per quel che atteneva alla gestione dei rapporti con l’India e ad altri importanti dossier di politica interna ed estera. Tuttavia, il forte consenso popolare che ha sancito la vittoria del PML-N ha indotto Nawaz Sharif a mettere in discussione quel patto, nel tentativo di indebolire progressivamente i militari e guadagnare maggiore spazio di governo.
La partecipazione di Sharif alla cerimonia di insediamento del nuovo primo ministro indiano Narendra Modi dello scorso 26 marzo era stata accolta da molti osservatori come un avvenimento di portata storica. Ma per i militari, da sempre contrari all’ipotesi di un reale e sincero riavvicinamento allo storico nemico indiano, ha rappresentato un preoccupante campanello d’allarme. La mancata concessione dello status di “nazione più favorita” a Nuova Delhi deriva proprio dall’opposizione delle forze armate, timorose che un’eventuale normalizzazione dei rapporti con l’India possa privarle di una delle loro principali raison d’être.
A determinare l’attuale crisi politica ha inoltre contribuito il tentativo di Nawaz Sharif di danneggiare l’immagine delle forze armate.
Dal punto di vista dei militari, il processo in corso contro Pervez Musharraf rappresenta un insopportabile atto di aggressione da parte delle autorità civili. In varie occasioni, le due parti sono sembrate vicine a un accordo, salvo poi ripensamenti dell’ultimo minuto da parte del governo che hanno impedito a Musharraf di lasciare il Pakistan.
Le operazioni militari lanciate a giugno contro i terroristi del Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) avevano già evidenziato come il tentativo di Nawaz Sharif di indebolire le forze armate potesse ormai dirsi fallito. Tra i principali punti della sua campagna elettorale, infatti, vi era proprio il dialogo con i gruppi terroristici attivi nel Paese. I militari, invece, non avevano mai nascosto la propria opposizione ad avviare colloqui di pace con il TTP e avevano a più riprese spinto per intervenire militarmente nelle aree di frontiera con l’Afghanistan.
La crisi politica che sta paralizzando Islamabad, dunque, va ben oltre le accuse di brogli mosse al PML-N da Imran Khan e i proclami rivoluzionari di Tahir ul-Qadri. L’obiettivo reale dei due leader, infatti, si limita alla conquista di maggiore rilevanza a livello politico, ma saranno le forze armate a beneficiare realmente degli attuali avvenimenti. Il primo ministro Nawaz Sharif appare ormai isolato a livello politico. La debolezza del suo governo ha già determinato la brusca interruzione del processo di normalizzazione dei rapporti con l’India.
Nei giorni scorsi, il governo di Nuova Delhi ha cancellato un incontro previsto per il 25 agosto, accusando l’Alto Commissario pakistano per l’India, Abdul Basit, di aver previamente consultato un leader separatista del Kashmir (pratica invero tollerata dai precedenti governi indiani). Oltre a confermare la linea dura adottata da Modi nei confronti del Pakistan, è possibile che il leader indiano non ritenga di alcuna utilità dialogare con un governo così debole e abbia dunque deciso di sfruttare tale occasione per guadagnare consensi in patria, compensando gli scarsi risultati sinora ottenuti nella sua azione di riforma dell’economia e della burocrazia indiana.
L’attuale crisi politica potrebbe condurre a diversi scenari alternativi: le forze armate potrebbero riuscire a mediare tra le varie parti, oppure il governo potrebbe rassegnare le dimissioni e indire elezioni anticipate. Nel primo caso, Sharif rimarrebbe alla guida del governo (appare però improbabile che porti a termine il mandato), seppure nelle vesti di “leader dimezzato”, ostaggio dei diktat dei militari. Nel secondo caso, invece, si andrebbe probabilmente verso la formazione di un governo di coalizione “sostenuto” dalle forze armate, con la partecipazione del People’s Pakistan Party (PPP) dell’ex-Presidente Asif Ali Zardari e dello stesso PTI di Imran Khan. L’ipotesi di un colpo di stato militare appare, al momento, meno probabile, anche se un’eventuale escalation delle proteste potrebbe renderla più concreta.
A prescindere dagli esiti che produrrà, oltre a rappresentare un duro colpo per il processo di maturazione democratica del Paese, la crisi politica in corso rischia di avere significative ripercussioni sul contesto regionale, allontanando ogni speranza circa possibili modifiche della politica sin qui condotta dal Pakistan nei confronti di India e Afghanistan.
In vista dell’imminente ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan e alla luce delle difficoltà di formare un governo di coalizione tra i due principali candidati alle ultime elezioni afghane, Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, il rischio di una rapida avanzata dei Taliban (da sempre sostenuti dalle forze armate pakistane) appare, dunque, sempre più concreto. Si tratterebbe di un nuovo grave fallimento per la politica estera americana. Una vera e propria pietra tombale per ogni residua ambizione di vittoria dei Democrats alle prossime elezioni presidenziali.