All’indomani dell’attentato di Peshawar del 16 dicembre scorso, in cui circa 150 persone (molte delle quali bambini) hanno perso la vita, le autorità pakistane hanno messo in mostra un iperattivismo, che ha alimentato in molti osservatori la speranza di un vero e proprio cambio di rotta nella politica di contrasto al terrorismo. Pochi giorni dopo l’attentato, è stato approvato un “Piano d’Azione Nazionale”, che ha sinora portato all’arresto di oltre 9.000 persone, tra le quali almeno 3.000 religiosi.
Alcune decine di presunti terroristi sono state giustiziate nelle ultime settimane, dopo che il Parlamento aveva abrogato la moratoria della pena di morte per i casi di terrorismo. Le operazioni militari nelle zone tribali al confine con l’Afghanistan e nel Khyber Pakhtunkhwa sono state intensificate, portando il numero dei presunti militanti uccisi ad oltre 1.700. I processi riguardanti presunti terroristi sono stati trasferiti per i prossimi due anni ai tribunali militari e sono stati annunciati provvedimenti per rafforzare il controllo dell’apparato statale sulle decine di migliaia di istituti religiosi presenti nel Paese (molti dei quali non sono nemmeno registrati e usufruiscono di finanziamenti esteri, in molti casi provenienti dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo).
Il 30 gennaio, tuttavia, un nuovo attentato contro una moschea sciita della provincia del Sind ha provocato circa 60 morti: si è trattato di uno dei più gravi attacchi di matrice settaria di questi ultimi anni, un’ulteriore conferma di quanta strada ci sia ancora da fare per contrastare il fenomeno terroristico, oramai radicatosi in ampi settori della popolazione. Eppure, non è tanto la lunga strada da percorrere ad alimentare timori, quanto l’incertezza che il percorso intrapreso non sia quello che conduce alla meta auspicata. O peggio, che questa meta non sia quella che è stata annunciata pubblicamente. Timori fondati, qui sotto espressi in appena quattro volti. Facce che descrivono un Paese che fa fatica a mettersi il passato alle spalle e guardare con maggiore fiducia verso il futuro. Volti che simboleggiano la sconfitta del Pakistan nella guerra contro i suoi demoni più intimi.
Mumtaz Qadri.

Reo confesso dell’assassinio, nel 2011, di Salman Taseer, governato del Punjab, in quel tempo attivo in una campagna per l’abrogazione della legge contro la blasfemia. Qadri era allora la guardia del corpo di Taseer. La sua condanna in primo grado provocò la dura reazione di decine di avvocati, i quali fecero irruzione e saccheggiarono l’aula del tribunale in cui era stata pronunciata la sentenza. Alle udienze è stato spesso accolto con un lancio di petali di rose, a testimonianza della sincera ammirazione da parte dei suoi numerosi sostenitori. Il processo in appello è stato avviato il 3 febbraio di quest’anno, dopo numerosi rinvii, dovuti all’assenza di giudici disposti a occuparsi del caso. Mumtaz Qadri non si è mai pentito del proprio crimine, dichiarandosi, al contrario, fiero di aver assassinato un colpevole di blasfemia. Le autorità temono che la sua condanna in via definitiva potrebbe scatenare la dura reazione dei numerosi gruppi religiosi radicali presenti nel Paese. D’altronde, in un Paese che detiene il record assoluto di condanne per blasfemia, la popolazione farebbe molta fatica a comprendere il senso di un’eventuale condanna contro Qadri, colpevole al massimo di un eccesso di foga, un peccato veniale se paragonato al grande gesto compiuto agli occhi di Allah.
Malik Ishaq.

È il leader di Lashkar-e-Jhangvi (LeJ), gruppo terroristico di matrice settaria legato ai Taliban afghani e ad al-Qaeda, che negli ultimi anni ha rivendicato numerosi attentati contro la comunità sciita, provocando migliaia di vittime. Ha trascorso gli ultimi quindici anni tra carcere e libertà vigilata, ma le autorità non sono sinora riuscite a produrre prove schiaccianti del suo coinvolgimento diretto in attacchi che lo stesso Malik ha rivendicato, tra cui uno nel 2009 contro la squadra di cricket dello Sri-Lanka e numerosi altri compiuti a Quetta e in altre zone del Paese. Da ultimo, era stato arrestato per incitamento all’odio: in due discorsi tenuti nel 2012 e nel 2013 aveva duramente attaccato la comunità sciita, impegnandosi solennemente a offrire il loro sangue per la sua missione. L’unica prova di questi discorsi era rappresentata da un file audio di pessima qualità, la cui attendibilità è stata prontamente contestata dai legali di Malik Ishaq, il quale è stato conseguentemente rilasciato. Sul leader di LeJ pendono ancora numerosi capi d’accusa, ma ogni processo subisce ritardi dovuti a problemi logistici (per i suoi trasferimenti è necessario un massiccio spiegamento di forze) e di altro tipo. Tra questi, l’assenza di persone disposte a testimoniare, poiché spaventate dal rischio di subire ritorsioni. Pare che durante un’udienza, un giudice avesse tentato di non rivelare la propria identità, nascondendosi il viso dietro le mani, ma che Malik gli si fosse poi avvicinato e avesse declamato uno ad uno i nomi dei suoi figli.
Maulana Abdul Aziz.

È il khatib della Moschea Rossa (Lal Masjid) di Islamabad. Si tratta di una figura molto controversa, entrata più volte in contrasto con l’apparato statale, ma temuta in ragione della sua capacità di mobilitare sostenitori e milizie, da utilizzare eventualmente per azioni di rappresaglia contro le autorità pakistane. È molto conosciuto in Pakistan per le sue posizioni radicali. Nel 2007, quando le forze di sicurezza lanciarono un’operazione militare contro la Lal Masjid, tentò di fuggire indossando un burqa, ma venne riconosciuto e fermato. Qualche mese fa, ha dedicato una delle librerie della moschea ad Osama bin-Laden, il leader storico di al-Qaeda. È tuttora al centro di una controversia per essersi inizialmente rifiutato di condannare l’attacco di Peshawar del 16 dicembre scorso. Grazie all’impegno di un folto gruppo di attivisti guidati da Muhammad Jibran Nasir, a fine dicembre è stato emesso nei suoi confronti un mandato di arresto, che, tuttavia, non è stato per ora applicato. Nelle ultime settimane, Abdul Aziz ha evitato di recarsi di persona in moschea, ma è riuscito comunque a proclamare i suoi sermoni per via telefonica.
Hafiz Said.

È forse lui il simbolo più importante della schizofrenia pakistana nella lotta all’estremismo. Said è il leader di Jamaat-ud-Dawa (JuD), fondazione dietro la quale si celerebbe in realtà il gruppo terroristico Lashkar-e-Toiba, responsabile di numerosi attentati, tra cui quelli compiuti a Mumbai nel 2008, che provocarono 166 vittime in tutto. Hafiz Said è tra i più fidati partner dell’intelligence pakistana sin dai primi anni ’90, un’importante proxy utilizzata in funzione anti-indiana. Gli obiettivi del gruppo, per principio contrario agli attacchi contro i musulmani (sia sunniti sia sciiti), sono sempre stati in linea con gli interessi delle autorità pakistane, e ciò ha consentito il consolidarsi di una partnership che si è sinora dimostrata più forte delle pressioni esercitate dalla comunità internazionale. Alcune settimane fa, sempre nell’ambito dell’intensificazione della lotta al terrorismo e all’estremismo religioso, le autorità pakistane hanno annunciato di aver bandito JuD. La notizia è stata accolta quasi con entusiasmo dalla comunità internazionale. Una decisione analoga, tuttavia, era stata annunciata già nel 2008, quando lo stesso Hafiz Said era stato arrestato, salvo poi essere rilasciato poco tempo dopo. Nel corso degli anni, il leader di JuD è stato arrestato più volte, ma le autorità non sono mai riuscite a produrre prove concrete contro di lui. Anche questa volta, l’annuncio del governo difficilmente avrà conseguenze tangibili. Negli ultimi anni, infatti, la fondazione guidata da Hafiz Said ha creato una delle più vaste reti di servizi sociali del Paese, prestando assistenza a milioni di cittadini pakistani, di cui si è guadagnata l’eterna riconoscenza. La maggioranza della popolazione vede nella Jamaat-ud-Dawa un movimento caritativo, non la facciata di un pericoloso gruppo terroristico e faticherebbe a comprendere le ragioni di un suo nuovo arresto, finendo per credere che dietro questo provvedimento si celi in realtà un nuovo abuso della comunità internazionale nei confronti del Pakistan. Hafiz Said questo lo sa bene e non a caso ha risposto all’annuncio della messa al bando di JuD, lanciando un nuovo servizio di ambulanze nella città di Karachi.
È semplice giustiziare presunti terroristi o ammazzarne a decine nelle zone tribali del Paese. Più difficile, invece, è costruire una narrativa che faccia chiarezza su quelli che sono i veri nemici dello Stato. Per questa, infatti, servono molto coraggio e la voglia di voltare pagina, costi quel che costi. Elementi che sembrano ancora mancare all’establishment politico-militare pakistano.
Daniele Grassi è Senior Analyst per IFI Advisory.
All’indomani dell’attentato di Peshawar del 16 dicembre scorso, in cui circa 150 persone (molte delle quali bambini) hanno perso la vita, le autorità pakistane hanno messo in mostra un iperattivismo, che ha alimentato in molti osservatori la speranza di un vero e proprio cambio di rotta nella politica di contrasto al terrorismo. Pochi giorni dopo l’attentato, è stato approvato un “Piano d’Azione Nazionale”, che ha sinora portato all’arresto di oltre 9.000 persone, tra le quali almeno 3.000 religiosi.