Il 2 novembre, un attentato suicida nei pressi di un valico di frontiera tra Pakistan e India ha provocato almeno una sessantina di morti e decine di feriti. L’attacco – il più grave di questi ultimi mesi – rende necessarie alcune considerazioni sulla strategia di contrasto al terrorismo della autorità pakistane e, più in generale, sul futuro del Paese e la stabilità dell’intera regione.

L’attentato è stato rivendicato da vari gruppi terroristici attivi nel Paese, tutti a vario titolo collegati alla galassia jihadista che orbita attorno al Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), coalizione responsabile di gran parte degli attacchi realizzati in Pakistan a partire dal 2007 (anno di fondazione del gruppo).
Si tratta di un’indicazione già di per sé rilevante, poiché ci dà la misura della crescente frammentazione esistente all’interno del TTP. Tale processo è in corso già da alcuni anni, in particolare da quando il Mullah Fazlullah è subentrato ad Hakimullah Mehsud al vertice più alto del gruppo (novembre 2013), ma ha subìto una ulteriore accelerazione a partire dallo scorso mese di giugno, con l’avvio, da parte delle Forze Armate pakistane, di una vasta operazione di contrasto al terrorismo nelle aree al confine con l’Afghanistan, che ha sinora provocato l’eliminazione di oltre 1.100 presunti terroristi.
L’intervento militare ha di certo contribuito a una diminuzione dell’attività terroristica sul territorio nazionale, spingendo, inoltre, alcune fazioni (in particolare, quella dei Mehsud – da sempre nucleo duro del TTP) verso i negoziati con il governo. Quest’anno, tra luglio e ottobre, le vittime civili per episodi di terrorismo sono state 420, meno della metà rispetto allo stesso periodo nel 2013, quando erano state 883 (dati del South Asia Terrorism Portal). Potrebbe essersi trattato, tuttavia, di una tendenza di breve periodo, destinata a scomparire una volta che le varie formazioni esistenti sul territorio nazionale saranno riuscite a riorganizzarsi, sfruttando, a questo proposito, anche la scarsa cooperazione tuttora esistente tra le autorità pakistane e afghane per quel che concerne il settore della sicurezza (scambio di informazioni, controllo delle frontiere, ecc.).
L’attentato del 2 novembre rischia, dunque, di segnare l’inizio di una nuova ondata di violenze nel Paese, anche in considerazione della competizione instauratasi tra i vari gruppi operanti sul territorio nazionale (in termini di visibilità internazionale e, dunque, di capacità di reclutamento e di accesso alle risorse).
Uno scenario simile non farebbe altro che confermare i timori sull’effettiva efficacia delle operazioni anti-terrorismo in corso dalla metà di giugno. Oltre all’accusa di selettività (alcuni gruppi sarebbero stati, infatti, risparmiati dall’intervento, in ragione della loro presunta vicinanza con l’intelligence pakistana), l’operazione militare viene da molti considerata come poco più che simbolica, soprattutto poiché non sembra essere accompagnata da un più sostanziale ripensamento dell’intero approccio dell’apparato statuale nei confronti del terrorismo.
A questo proposito, è interessante sottolineare una recente iniziativa del governo locale del Khyber Pakhtunkhwa (KP), una delle province più gravemente colpite dal fenomeno del terrorismo in questi ultimi anni. Secondo quanto comunicato a fine ottobre dal locale Ministro dell’Educazione, Atif Khan, è stata avviata una revisione dei libri di testo utilizzati nella provincia, con l’obiettivo di renderli maggiormente conformi alla religione islamica, attraverso l’inserimento di versetti sul jihad, la rimozione di ogni riferimento al Kashmir come a un territorio indiano, l’eliminazione di tutte le immagini che ritraggono donne non coperte dal velo. Un’iniziativa che rivela come da parte delle autorità di governo pakistane manchi per ora la volontà di stabilire su basi nuove l’identità nazionale e la convivenza civile.
La decisione, verso la fine degli anni ’70 (in concomitanza con l’intervento sovietico in Afghanistan), di dare maggiore spazio all’Islam, nella sua versione più radicale, all’interno del sistema educativo nazionale ha certamente favorito la diffusione dell’estremismo tra i settori più giovani della popolazione, con effetti che sono oggi ben visibili. I
l Pakistan è tra i Paesi al mondo in cui si registrano i livelli più alti di violenza settaria e detiene inoltre il record di persone incarcerate con l’accusa di blasfemia, reato che rivela preoccupanti tendenze oscurantiste e viene spesso utilizzato per colpire le minoranze religiose. Proseguire lungo il percorso avviato all’epoca dal Generale Zia ul-Haq equivale ad una sostanziale ammissione di fallimento da parte delle autorità statuali, incapaci di legittimarsi attraverso la fornitura di servizi essenziali e la garanzia dell’incolumità della popolazione e, dunque, costrette a ricorrere ad altri strumenti.
La legittimità dello Stato è una condizione sine qua non per la sua stabilità e, da sola, la religione non sembra poter rappresentare una fonte di sufficiente legittimazione, almeno nel caso del Pakistan. Mantenere alta la pressione militare sui gruppi terroristici attivi nel Paese potrebbe, dunque, consentire alle autorità pakistane di ottenere taluni risultati positivi nella lotta al terrorismo, ma essi saranno inevitabilmente limitati, a meno che non vengano affiancati da una necessaria, benché dolorosa, revisione di alcuni importanti paradigmi di politica interna ed estera (in particolare, in relazione ai dossier Afghanistan e India).
L’attentato del 2 novembre offre ulteriori spunti di grande interesse. In questi anni, gli attacchi erano stati prevalentemente concentrati nelle zone al confine con l’Afghanistan e nella metropoli di Karachi (provincia del Sind), mentre il Punjab, vero e proprio cuore politico del Paese, era stato meno gravemente colpito dalle violenze. Nel 2013, 64 civili avevano perso la vita in attacchi terroristici. Quest’anno, i morti sono già oltre 120. Altrettanto preoccupante appare l’aumento degli attentati suicidi (non ne erano stati registrati nel 2013, mentre sono già quattro nell’anno in corso). L’incremento dell’attività terroristica nel Punjab mostra come la minaccia sia oramai capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, compresi i principali centri urbani del Paese.
Non sfugge, infine, il forte valore simbolico dell’ultimo attentato. Colpendo il valico di frontiera di Wagah, unico punto di transito per le merci provenienti dall’India, i gruppi terroristici attivi in Pakistan hanno mostrato la propria determinazione a impedire ogni eventuale processo di normalizzazione nei rapporti con Nuova Delhi. Se l’attacco avesse provocato vittime sul lato indiano della frontiera, la situazione sarebbe ben più grave di quella oggi descritta, profilandosi la possibilità di una una dura reazione da parte del governo guidato dal nazionalista Narendra Modi, il quale ha più volte ribadito, nei primi mesi di governo, di non intendere tollerare nuovi attentati da parte di formazioni che hanno le proprie basi sul suolo pakistano. È forse questo il più grave pericolo che l’Asia meridionale si trova oggi a dover affrontare. Una minaccia che nessuno degli Stati interessati sembra davvero in grado di poter controllare.
Daniele Grassi è Senior Analyst per IFI Advisory.
Il 2 novembre, un attentato suicida nei pressi di un valico di frontiera tra Pakistan e India ha provocato almeno una sessantina di morti e decine di feriti. L’attacco – il più grave di questi ultimi mesi – rende necessarie alcune considerazioni sulla strategia di contrasto al terrorismo della autorità pakistane e, più in generale, sul futuro del Paese e la stabilità dell’intera regione.