Islamabad annuncia il rimpatrio di oltre due milioni di persone, fin qui protette. Un colossale controesodo è poco realistico, ma la minaccia sta già spingendo molti a partire. E aumenta la pressione su Kabul e Washington
Continua la stretta del governo pachistano sui rifugiati afgani. Mercoledì scorso è scaduta la proroga che riconosce a più di un milione di afgani il diritto di protezione in Pakistan. Si tratta per l’esattezza di 1,38 milioni di individui in possesso del Proof of Registration (PoR), il documento rilasciato da Islamabad, che attesta la permanenza legale nel Paese. A questi si sommano un altro milione di profughi non registrati,in buona parte stanziati a ridosso della Linea Durand, il confine Af-Pak, sin dall’epoca dell’invasione russa in Afghanistan. Tutti teoricamente destinati ad essere individuati e trasferiti nella terra di origine «nel rispetto della dignità e della sicurezza», così come promesso dal governo pachistano.
Se la mobilitazione di 2,3 milioni di persone rappresenta uno scenario improbabile, è vero anche che per la prima volta Islamabad sembra aver optato per una strategia basata sulla concessione di proroghe a breve termine. Al momento della sua introduzione nel 2009 infatti, il PoR rappresentava una soluzione temporanea, ma la scadenza è poi stata posticipata in più occasioni, per periodi medio lunghi. È accaduto sei volte, fino all’ultimo slittamento annunciato dal Primo ministro Shahid Khaqan Abbasi il primo gennaio scorso, stavolta concedendo un mese appena.
Il giorno della scadenza, mercoledì 31 gennaio, come prevedibile il governo è intervenuto ancora una volta, facendo avanzare il termine di un altro mese. Malgrado il nuovo slittamento, la prospettiva della perdita del PoR sarebbe all’origine del cosiddetto push factor: una «condizione di incertezza per i rifugiati» tale da convincerli a tornare nel Paese di origine.
È questo il timore di Dan McNorton, portavoce di Unhcr Pakistan che, in un’intervista ad Al Jazeera, ha confermato il fatto che molti afgani siano stati indotti a lasciare gli insediamenti pachistani, affrontando le incognite del ritorno. Incognite quali il perdurare dell’instabilità nel Paese, dove mancano anche gli spazi in cui accogliere i profughi di rientro, così come le condizioni – in particolare sicurezza e opportunità di impiego– tali da garantire un reinsediamento stabile.
La conferma è data dai numeri: lo scorso anno più di 150mila rifugiati sono tornati in Afghanistan, 59mila dei quali erano “registrati” (in possesso del PoR) e assistiti dall’Agenzia Onu per i Rifugiati – anche con l’erogazione di un contributo di 200 dollari per ciascun rimpatrio –, mentre i restanti sono stati rientri volontari, indotti anche dalle pressioni create dalla linea del governo Abbasi. Parte di questi afgani sarebbero successivamente tornati nei campi pachistani a causa dell’insufficienza di strutture di accoglienza poste in essere da Kabul.
Per giustificare le proprie scelte in materia di rifugiati, Islamabad ha tirato in causa ragioni di sicurezza interna, sostenendo i campi afgani al confine siano il luogo in cui trovano rifugio «i terroristi in fuga dall’Afghanistan». C’è poi una lettura economica: «L’economia pachistana porta da lungo tempo il fardello dell’ospitalità per i rifugiati afgani, e nelle circostanze odierne non è più sostenibile»afferma una recente nota attribuita dalla stampa pachistana al governo Abbasi. Questo malgrado l’anno fiscale concluso a giugno 2017 abbia registrato una crescita del 5.3% del Pil, il miglior risultato degli ultimi dieci anni. Incremento che sembra suggerire la ripresa di un Paese dove la disoccupazione, dovuta alla stagnazione economica, ha alimentato l’insoddisfazione dei più giovani, che a decine di migliaia negli anni hanno preso la via europea, spesso mescolandosi all’esodo degli afgani. La crescita del Pil pachistano dovrebbe confermarsi anche nel 2018, assestandosi secondo le previsioni della Banca centrale al 6%. Ipotesi sostenuta dal progressivo ritorno degli investimenti stranieri, giunti a 5 miliardi di dollari nell’anno fiscale in corso, rispetto ai 3,43 miliardi dell’anno precedente.
Messa da parte la questione economica, sembra Islamabad stia usando i profughi come massa critica per creare pressioni sul governo afgano, evidentemente impreparato a far fronte alla portata dell’esodo di rientro, ammesso e non concesso questo possa avvenire. E farsi sentire al contempo anche a Washington. Date alla mano, il mese di proroga al PoR è stato annunciato da Abbasi proprio il primo gennaio, giorno in cui il governo pachistano è finito alla ribalta grazie a uno dei famigerati tweet del Presidente americano Donald Trump. «Gli Stati Uniti hanno stupidamente dato al Pakistan più di 33 miliardi di dollari in aiuti negli ultimi 15 anni, e loro non ci hanno dato altro che menzogne e inganni, pensando i nostri leader siano degli stupidi. Proteggono gli stessi terroristi cui noi diamo la caccia in Afghanistan, poco aiutati. Basta!», cinguettava Trump, prima di congelare l’erogazione di 1,055 miliardi di dollari in aiuti al Pakistan, stabiliti in cambio dell’impegno militare lungo il confine afgano.
Impegno teoricamente volto a contrastare la presenza di combattenti talebani e dei membri della rete Haqqani – parte dei quali legata alla “provincia del Khorasan”, lo Stato Islamico in Afghanistan –, che, secondo le accuse di Stati Uniti e Kabul, trovano protezione nelle zone tribali del Pakistan senza incontrare una concreta opposizione da parte di Islamabad.
L’esistenza di legami tra l’auctoritas militare pachistana con i Talebani e la rete Haqqani non è un segreto. Entrambi i gruppi sono animati da un acceso sentimento anti-indiano, per questo serviranno al Pakistan come interlocutori nel momento in cui gli Stati Uniti lasceranno l’Afghanistan. Lo scopo è quello di far emergere un fronte da contrapporre al governo di Kabul, da tempo legato all’India che rimane il principale rivale regionale del Pakistan.
Ecco che oltre ad accusare Islamabad di scarso impegno, da anni gli Stati Uniti compiono missioni oltre la Linea Durand, nelle zone tribali del Pakistan. L’ultimo episodio risale al 24 gennaio, quando un drone statunitense ha ucciso un comandante della rete Haqqani e due suoi compagni, colpendoli in un campo profughi afgano nella Kurram Agency. Attacco condannato dal ministero degli affari Esteri pachistano, riuscito poi a trasformare l’azione unilaterale degli Stati Uniti in un assist, rimarcando la necessità di sgomberare i campi afgani al confine e di rimpatriare chi li abita, così da privare “i terroristi” di luoghi in cui cercare protezione.
Islamabad annuncia il rimpatrio di oltre due milioni di persone, fin qui protette. Un colossale controesodo è poco realistico, ma la minaccia sta già spingendo molti a partire. E aumenta la pressione su Kabul e Washington