I molti leader occidentali ricorrono ai paradisi fiscali per sfuggire alle tasse, i molti leader mediorientali (nei cui Paesi la tassazione è bassa o assente) si assicurano un futuro in caso di rivoluzioni e spodestamenti
Quasi 12 milioni di documenti analizzati da 600 giornalisti, dai quali sono emersi circa 29mila conti offshore di società connesse ad oltre 300 personalità politiche mondiali, sparse in oltre 90 paesi (più o meno equamente divisi tra autoritari e democratici), tra i quali 35 ex ed attuali capi di Stato o di governo, che negli anni si sono arricchiti in modo spropositato grazie all’evasione e all’elusione del fisco. Sono alcuni dei numeri dei Pandora Papers (PP), che il Consorzio internazionale di giornalismo investigativo (ICIJ) ha pubblicato lo scorso ottobre, definendoli “la più grande inchiesta della storia del giornalismo”. Una luce estesa sull’economia globale offshore, e riflessa sull’arricchimento illecito e le manovre opache di centinaia di personalità di potere. Secondo un esteso report del Tax Justice Network, sono 427 i miliardi di dollari che i governi del mondo hanno perso lo scorso anno a causa dell’elusione fiscale, una pratica che a differenza dell’evasione viene condotta in modo legale.
Il caso del Medio Oriente
In Medio Oriente, una regione che dieci anni fa veniva scossa da quelle primavere arabe scaturite proprio da istanze socio-economiche, dalla generalizzata insofferenza verso le crescenti e sempre più visibili sperequazioni sociali, sono una quarantina i politici collegati all’inchiesta, provenienti da nove Paesi (Giordania, Libano, Qatar, Emirati arabi uniti, Marocco, Bahrein, Israele, Tunisia, Kuwait). Personalità di diverso rilievo, tra cui il re di Giordania Abdullah II, l’emiro del Qatar Tamin bin Hamad al Thani, il Primo Ministro libanese Najib Mikati, il Primo Ministro degli Emirati Mohammad bin Rashid al Maktoum, ma anche di diversi livelli di impatto presso le società civili di riferimento.
L’emiro del Qatar e l’ex Primo Ministro e miliardario Hamad bin Jassim Al Thani sarebbero ad esempio titolari di conti correnti offshore da milioni di dollari, registrati tra Panama, Isole Cayman e Bahamas. Tamim bin Hamad viene collegato ad almeno due società registrate alle Isole Vergini, con cui ha comprato proprietà immobiliari per decine di milioni di dollari nel Regno Unito. Nel 2013 la madre dell’emiro, Moza bint Nasser, ha acquistato attraverso questo schema tre delle più costose ville in Gran Bretagna, dal valore complessivo di 187 milioni di dollari. L’emiro di Dubai e primo ministro degli Emirati dal 2006, Mohammad bin Rashid al Maktoum, ha fatto strutturare in modo più complesso i suoi investimenti privati, usando la Axiom Limited, posseduta dalla Dubai Holding, per registrare tre società alle Bahamas con cui effettuare acquisti di ville e altri beni di lusso, diluiti però non nel Regno Unito ma in tutta Europa.
Quelli sopra menzionati sono probabilmente i casi che segnalano una gravità relativa, alla luce della relazione tra società civile e Corona, e dell’impianto istituzionale di riferimento. I casi di Qatar e Emirati Arabi Uniti hanno destato uno scalpore contenuto, essendo Paesi dove la tassazione è molto bassa e dove la società civile non pone particolari sfide al potere costituito, riconoscendone o assecondandone l’assetto istituzionale che pone gli emiri in posizione apicale, i loro stessi investimenti globali come vettori del soft power, e potendo peraltro vantare il reddito pro capite più alto al mondo (nel caso del Qatar).
I casi di Giordania e Libano
La situazione cambia nel Levante: i casi di Giordania e Libano non possono essere isolati dal malcontento che da diversi anni ivi ribolle, alimentato dall’aumento della distanza tra ricchissimi e poverissimi. Il Re giordano Abdullah II tra il 2003 e il 2017 ha usato alcune compagnie offshore per costruire un vero e proprio impero del lusso tra Stati Uniti e Gran Bretagna: quattordici ville per un totale di circa 100 milioni di dollari, che stridono con l’immagine sobria e generosa che la famiglia del sovrano cerca di dare. L’aspetto inquietante è che gran parte di questi acquisti sono stati effettuati durante le fasi più intense delle primavere arabe, ma non è tutto: nel 2019, durante accese manifestazioni contro la corruzione e la povertà, e mentre la disoccupazione toccava il 19%, Amjad Hazza Al Majali, ex consigliere dell’ex Re di Giordania, aveva pubblicato sui social media una lettera in cui invitava la famiglia reale a “restituire la ricchezza sottratta dalle casse dello Stato”.
Il caso libanese è sui generis, poiché parliamo di una repubblica parlamentare in cui l’intera classe politica – eletta democraticamente – viene accusata da buona parte della popolazione, in protesta a intensità variabile sin dal 2019, di essersi appropriata della ricchezza del Paese. I PP, in questo senso, non fanno altro che certificare un sospetto diffuso: mentre l’economia libanese si avviava al collasso, col totale deperimento di servizi essenziali come l’elettricità, quasi il 50% della popolazione finita in pochi anni sotto la soglia della povertà, un debito pubblico esorbitante, inflazione a due zeri, il divieto di prelievo in dollari agli sportelli bancari dal 2019, i politici libanesi facevano uscire dal paese oltre 6 miliardi in dollari (che ai libanesi comuni erano stati congelati), registrando decine di società nei paradisi fiscali. Il Paese, sei milioni di abitanti in un territorio esteso come l’Abruzzo, “vanta” il più alto numero in assoluto di società registrate in paradisi fiscali: 346, a fronte delle 151 della Gran Bretagna, seconda in questa graduatoria.
I PP coinvolgono politici ed imprenditori libanesi su quasi tutto lo spettro. Non solo figure come Marwan Kheireddine, legate alla Corrente patriottica libera del Presidente Michel Aoun (di cui è consigliere), o lo stesso ex premier tecnico Hassan Diab, ma anche imprenditori come gli Al Khayat, proprietari dell’emittente Al Jadeed, che a lungo ha coperto in modo “solidale” le proteste contro l’establishment. I casi più rumorosi sono però quelli di Riad Salameh, governatore della Banca centrale e principale responsabile del crollo verticale della lira libanese, e del premier Najib Mikati.
Perché il Libano?
È impossibile non rilevare il contrasto tra le condizioni in cui versa Tripoli, la città nativa del premier, con un tasso di disoccupazione che oggi supera il 60%, e l’enorme ricchezza accumulata da quest’ultimo, magnate delle telecomunicazioni, tra i più ricchi individui dell’intera regione. Mikati ha usato per comprare appartamenti a Monaco e Londra, e secondo fonti citate dalla piattaforma Daraj, ha usufruito di prestiti agevolati (destinati a famiglie a basso reddito) dalla Bank Audi per comprare immobili in Libano, tra cui l’appartamento da 1500 metri quadri dove vive nella torre Platinum, al centro di Beirut.
Pratiche perlopiù elusive, che però non possono smorzare il risentimento, già attivo, di almeno due milioni di persone che in Libano vivono ancora nei campi profughi, o dei 300.000 libanesi che hanno perso la casa nell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020, o della maggioranza che ha un sempre più scarso accesso ai servizi essenziali, incluse le medicine. In Libano il fisco perde oltre 200 milioni di dollari l’anno solo a causa di pratiche elusive, una cifra che ammonta al 10% del budget per la sanità e al 3% del gettito.
Se politici e leader di Paesi liberaldemocratici – come Blair o Strauss Kahn – hanno accumulato ricchezza nei paradisi fiscali soprattutto con l’obiettivo di sfuggire al più o meno alto livello tassazione nazionale, non è insensato credere che quelli di Paesi più o meno autoritari abbiano fatto lo stesso pensando anche a una polizza assicurativa, nell’eventualità di rivoluzioni di piazza che mettano in discussione la natura stessa del loro potere e la loro permanenza nel Paese. I politici libanesi si situano nel mezzo: in condizione di sfuggire alla feroce “austerity” imposta ai libanesi durante la peggiore crisi economica della sua storia, e allo stesso tempo sempre più nel mirino delle proteste popolari, nelle quali si intima all’intero establishment di farsi da parte, e che erano state generate proprio da istanze che ricalcano la realtà messa in luce dai PP.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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I molti leader occidentali ricorrono ai paradisi fiscali per sfuggire alle tasse, i molti leader mediorientali (nei cui Paesi la tassazione è bassa o assente) si assicurano un futuro in caso di rivoluzioni e spodestamenti
Quasi 12 milioni di documenti analizzati da 600 giornalisti, dai quali sono emersi circa 29mila conti offshore di società connesse ad oltre 300 personalità politiche mondiali, sparse in oltre 90 paesi (più o meno equamente divisi tra autoritari e democratici), tra i quali 35 ex ed attuali capi di Stato o di governo, che negli anni si sono arricchiti in modo spropositato grazie all’evasione e all’elusione del fisco. Sono alcuni dei numeri dei Pandora Papers (PP), che il Consorzio internazionale di giornalismo investigativo (ICIJ) ha pubblicato lo scorso ottobre, definendoli “la più grande inchiesta della storia del giornalismo”. Una luce estesa sull’economia globale offshore, e riflessa sull’arricchimento illecito e le manovre opache di centinaia di personalità di potere. Secondo un esteso report del Tax Justice Network, sono 427 i miliardi di dollari che i governi del mondo hanno perso lo scorso anno a causa dell’elusione fiscale, una pratica che a differenza dell’evasione viene condotta in modo legale.