Che lo Yemen non fosse un esempio di good governance lo si sapeva, ma il rapporto presentato al Consiglio della Sicurezza dell’Onu la settimana scorsa fotografa una situazione inquietante: l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, che ha governato il Paese dal 1978 al 2012 (prima alla guida dello Yemen del Nord, poi della nazione unificata), avrebbe accumulato fortune comprese tra i 32 e i 60 miliardi di dollari, sottraendo alle casse statali fino a due miliardi l’anno, grazie a tangenti sui contratti di petrolio e gas, versate dalle compagnie che reclamavano diritti di esclusiva, e alla distorsione dei sussidi ai carburanti, che assorbivano una parte significativa del bilancio statale. Per tracciare un parallelo, il Pil dello Yemen, tra il 1990 e il 2013, secondo la Banca Mondiale, ha raggiunto in media i 11,5 miliardi di dollari, mentre quello attuale oscilla intorno ai 35 miliardi.
Le storie sui patrimoni dei dittatori sono ormai una categoria letteraria, che parte da Bokassa ad arriva fino ai coniugi Marcos, prescindendo da ideologie e latitudini. Il mondo arabo, in questo senso, non fa eccezione. Al contrario, in tutti i Paesi coinvolti dalla primavera è stridente il contrasto tra il reddito medio piuttosto basso, unito alla disoccupazione diffusa, e la ricchezza accumulata dal clan al potere. Come scrive il sito Middle East Eye, se il report scritto dal panel dell’Onu fosse corretto, Saleh sarebbe (nell’ipotesi massima, 60 miliardi) il quinto uomo più ricco al mondo nella tradizionale classifica di Forbes, stretto tra l’amministratore delegato di Oracle, Larry Ellison, (54,1 miliardi) e il fondatore di Zara, Amancio Ortega (la cui fortuna è stimata intorno ai 67 miliardi). Se, invece, fosse realistica l’ipotesi minima, l’ex padre padrone yemenita occuperebbe comunque una posizione ragguardevole, la numero diciotto, davanti al re dei casinò Sheldon Adelson (peraltro grande finanziatore dei repubblicani israeliani e della destra israeliana).
Quelle di Saleh sono le classiche pratiche di accaparramento: somme distratte dal bilancio statale e trasferite all’estero (si parla di una ventina di Paesi) sotto falso nome e in varie forme (denaro contante, azioni, oro ed altre commodities di valore). Non è semplice ricostruire i patrimoni ammassati dai dittatori, che tendono ad essere occultati (vedi alla voce “segreto bancario”, oppure “prestanome”), anche se in questo caso non si tratta di ricostruzioni giornalistiche, ma di un’inchiesta che porta il timbro delle Nazioni Unite. Il Los Angeles Times, ad esempio, scrisse che Gheddafi, prima di essere ucciso, aveva accumulato ricchezze pari a 200 miliardi di dollari, una cifra che lo avrebbe reso l’uomo più facoltoso del pianeta.
Qui subentra una difficoltà, tipica dei Paesi in cui il confine tra proprietà statale e proprietà privata (intesa come clan al potere) è molto labile. Buona parte del patrimonio di Gheddafi, infatti, apparteneva formalmente alla Banca Centrale libica e al fondo sovrano di Tripoli, la Libyan Investment Authority, molto attivi anche in Italia (entrambi erano azionisti di Unicredit, ad esempio). Di fatto, però, gli enti erano gestiti in maniera personale dal Colonnello. Adesso attorno a questi asset, in Libia, si gioca una partita che è al tempo stesso finanziaria e politica (la comunità internazionale ha minacciato di bloccare i fondi della Banca Centrale nel caso in cui idue governi, Tripoli e Tobruk, non trovino un’intesa).
Il dittatore tunisino Ben Ali, il primo a lasciare il potere all’epoca delle primavere arabe, ora in esilio dorato a Gedda, in Arabia Saudita, avrebbe accumulato un patrimonio di undici miliardi di dollari. Un dilettante rispetto all’egiziano Mubarak, le cui fortune sarebbero comprese tra i 40 e i 70 miliardi di dollari. Una cifra, quest’ultima, che è stata spesso associata alla ricchezza personale di Vladimir Putin.
La stessa Forbes è consapevole della difficoltà di valutare questi asset e non comprende i satrapi all’interno delle proprie classifiche. “Escludiamo dalla lista i membri delle famiglie reali e i dittatori, le cui fortune derivano esclusivamente dalla loro permanenza al potere”, ha detto recentemente il vicedirettore Kerry Dolan, rispondendo a una domanda sulla mancata inclusione di Putin. Il cui ego si può, in ogni caso, consolare: nella graduatoria di Forbes sugli uomini più potenti del mondo, il presidente russo è in testa, davanti ad Obama.
@vannuccidavide
Che lo Yemen non fosse un esempio di good governance lo si sapeva, ma il rapporto presentato al Consiglio della Sicurezza dell’Onu la settimana scorsa fotografa una situazione inquietante: l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, che ha governato il Paese dal 1978 al 2012 (prima alla guida dello Yemen del Nord, poi della nazione unificata), avrebbe accumulato fortune comprese tra i 32 e i 60 miliardi di dollari, sottraendo alle casse statali fino a due miliardi l’anno, grazie a tangenti sui contratti di petrolio e gas, versate dalle compagnie che reclamavano diritti di esclusiva, e alla distorsione dei sussidi ai carburanti, che assorbivano una parte significativa del bilancio statale. Per tracciare un parallelo, il Pil dello Yemen, tra il 1990 e il 2013, secondo la Banca Mondiale, ha raggiunto in media i 11,5 miliardi di dollari, mentre quello attuale oscilla intorno ai 35 miliardi.