Le due “Cine” s’incontrano in un cauto riavvicinamento ufficiale.

Il primo incontro a livello governativo tra Cina e Taiwan dalla fine della Guerra civile, finita nel 1949 con la vittoria di Mao Zedong, si è svolto il 13 febbraio scorso. Il Ministro degli Affari con Taiwan presso il Consiglio di Stato, Zhang Zhijun, per la Cina popolare, e il suo omologo taiwanese, Wang Yu-chi, hanno scelto la città cinese Nanchino per i tre giorni di colloqui.
Non che in questi 65 anni siano mancati i contatti: i rapporti tra Pechino e Taipei si erano fatti meno tesi a partire dal 1992 con l’avvio dei rapporti commerciali e il raggiungimento del “Consenso”, un accordo secondo cui le due parti riconoscevano il principio di “una sola Cina”, un principio flessibile di cui ciascuna capitale fa propria l’interpretazione. Ma i progressi nelle relazioni tra le due capitali sono sostanziali: fino a dieci anni fa non c’erano neanche voli diretti.
Oggi i commerci tra i lati dello stretto di Formosa valgono circa 200 miliardi di dollari annui. “Altri incontri ci sono stati in passato, ma non tra ministri e non in Cina”, ha osservato Jean Pierre Cabestan, della Baptist University di Hong Kong. Storici, quindi, i colloqui tra i delegati dei due Paesi.
Alcuni osservatori però invitano alla prudenza, anche se sulla carta i risultati dell’incontro appaiono concreti. Oltre a un accordo sull’aumento degli scambi commerciali e all’istituzione di un servizio di assistenza sanitaria per gli studenti che si trovano nei reciproci paesi, tra le due parti si è discusso soprattutto di istituire formali uffici di rappresentanza.
La decisione potrebbe in effetti riavvicinare due paesi, Repubblica popolare cinese e Repubblica di Cina, che non si riconoscono e rivendicano ciascuna l’identità di “vera” Cina. Pechino in pratica non ammette che un paese terzo possa riconoscere sia la RPC che Taiwan: l’isola ha sedi diplomatiche solo in 23 paesi nel mondo.
Da questi si è recentemente autoescluso il Gambia, che nel novembre scorso, di punto in bianco, ha espulso i diplomatici di Taipei. La comunità internazionale quasi nella sua interezza preferisce intrecciare relazioni diplomatiche con Pechino, forte della sua potenza economica. Senza modificare lo status quo e innervosire la RPC – che ha tuttora missili puntati su Taipei – i diplomatici taiwanesi lavorano da anni all’accrescimento della propria presenza all’interno delle organizzazioni internazionali, con il sostanziale avallo di Pechino. È il risultato più visibile della diplomazia “flessibile” inaugurata dal presidente di Taiwan, Ma Ying-Jeou.
Per Pechino riconciliarsi con Taiwan in un momento in cui la Cina ha pochi amici in Asia è una mossa strategica per respingere le critiche alla sua aggressività e rassicurare sulle sue mire espansionistiche. Del resto, Cina e Taiwan condividono pressoché le stesse posizioni sulle dispute territoriali che Pechino ha ingaggiato negli ultimi anni con il Giappone, il Vietnam e le Filippine per alcuni territori nei mari Cinese Orientale e Meridionale.
Il processo di riavvicinamento è frutto di un percorso lungo. La normalizzazione dei rapporti non è iniziata all’improvviso; il processo era cominciato nel 2008 con l’elezione di Ma Ying-Jeou alla presidenza di Taiwan.
Ha portato a una prima fase di disgelo nei rapporti dopo anni in cui alla guida dell’isola c’era stato il capo dello schieramento indipendentista, Chen Shui-bian.
Se appare improbabile che Pechino decida il ritiro dei missili che minacciano Taiwan, nel futuro si intravedono una più attiva cooperazione, maggiori scambi e un probabile incontro tra i Presidenti Xi e Ma. Il leader di Taipei spera d’incontrare il Presidente cinese prima della fine del suo mandato, forse già al vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) che si terrà a Pechino a ottobre. Il Presidente Ma però perde consensi a causa degli scarsi risultati economici ottenuti dal suo Governo, e non è escluso che tra due anni la Cina si ritrovi faccia a faccia con un interlocutore meno disposto ad accettare il tacito accordo secondo cui Taiwan non rivendicherà mai formalmente l’indipendenza.
Si spiega forse così l’accelerazione data dallo stesso Presidente Xi alla realizzazione dell’incontro di Nanchino. Il progresso fatto si regge nominalmente sulle sottili sfumature date da Taiwan all’interpretazione della condivisa politica di “Una sola Cina”. Secondo il nuovo rappresentante dell’isola a Roma, Stanley Kao, la giusta parola per comprendere il modo in cui il Governo di Taipei ora la intende è “riconciliazione”. “La maggioranza della popolazione taiwanese – dice Kao – è a favore dello status quo: no all’indipendenza, no all’uso della forza militare, no all’unificazione. È prematuro parlare di un accordo di pace vero e proprio. Nel frattempo, i due Paesi dovrebbero puntare sull’ampliamento della cooperazione in campo economico e commerciale”.
Non mancano certo le resistenze, anche all’interno dell’isola. Proprio il 19 marzo scorso gli studenti di Taipei hanno protestato di fronte al parlamento dell’isola contro la prima approvazione dell’accordo di scambi commerciali con Pechino. Per quanto riguarda i missili, secondo Kao: “Pechino non ha alcun pretesto per agire sconsideratamente contro di noi. Ma non diamo nulla per scontato”. Del resto, Cina e Taiwan hanno tanti interessi comuni.
Arrivare a uno scontro è un’idea che per il momento sembra relegata al passato.
Le due “Cine” s’incontrano in un cauto riavvicinamento ufficiale.