Una duplice esecuzione a Tokyo riaccende i riflettori sulle modalità particolarmente crudeli dell’applicazione della pena di morte in Giappone. Ma Abe non cambia passo, anzi, viene meno anche la sospensione dell’esecuzione dei condannati che hanno presentato appello per il riesame
Le ultime immagini del percorso che porta un condannato a morte alla sala dell’esecuzione sono del 2010. Si vedono una stanza con poltrone foderate in pelle nera, un tavolino basso e un altare di Kannon, la divinità che in molte branche del buddhismo rappresenta la misericordia; Un’anticamera bianca, asettica, con un altro altarino dorato. Dietro un tendone blu, infine, la stanza dell’esecuzione.
Le pareti sono beige, marroncino chiaro, il pavimento bianco. L’aspetto del luogo, se solo non fosse usato esclusivamente per le impiccagioni, è quasi tranquillizzante, accogliente. Da un lato, si apre una grande finestra su un piano d’osservazione da cui i testimoni possono assistere all’esecuzione. In centro un quadrato rosso identifica la botola da cui viene fatto cadere il condannato. Su una parete esterna dalla sala ci sono tre pulsantiere che attivano la botola e un citofono.
Lo scorso 19 dicembre, due condannati a morte sono stati uccisi in una sala di questo tipo nel centro di detenzione di Tokyo. Il primo, Kiyoshi Matsui, si trovava nel braccio della morte dal 1994 per l’omicidio della sua ragazza e dei genitori di lei. L’altro, Teruhiko Seki, era in carcere dal 1992 per aver ucciso la sua famiglia. Al tempo, per l’ordinamento giapponese, era minorenne: aveva appena 19 anni.
«I due condannati hanno portato via vite preziose per ragioni egoistiche», ha spiegato il ministro della giustizia Yoko Kamikawa alla stampa. È infatti il capo del dicastero della giustizia a decidere della sorte dei condannati nel braccio della morte: «Dopo attenta considerazione – ha concluso Kamikawa – ho ordinato le esecuzioni».
Rispettivamente quelle di Matsui e Seki sono la terza e la quarta del 2017, la ventesima e ventunesima esecuzione dal 2012, anno del ritorno al potere del partito liberaldemocratico guidato dal conservatore Shinzo Abe.
Rispetto al passato – solo nel 2008 furono uccisi 15 condannati a morte — i numeri sono certo più contenuti. Sono però le modalità dell’esecuzione che attirano le critiche della comunità internazionale. Dopo lunghi periodi, anche decennali, in cella, i condannati ricevono una notifica dell’esecuzione poche ore prima che questa avvenga. Prima di essere giustiziati, i condannati vengono portati bendati fino alla sala dell’esecuzione e sempre bendati vengono impiccati. I parenti delle vittime non hanno il permesso di vedere i loro cari prima della loro morte. Anzi, nella maggior parte dei casi vengono avvertiti a cose fatte.
Amnesty International ha condannato le due esecuzioni. Proprio questo mese cadeva infatti il decennale dell’adozione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di una risoluzione sulla moratoria della pena di morte. Il Giappone, come gli Stati Uniti, accusa la ong, è l’unica democrazia al mondo a ignorare il trend globale verso la fine della pena di morte. «Ancora una volta – ha spiegato la coordinatrice delle ricerche per l’Asia orientale della ong, Roseann Rife – Tokyo ha dimostrato disprezzo per il diritto alla vita». «Se il governo pensa che la pena di morte sia una pena efficace, si illude. Questa è la punizione più crudele, disumana e degradante», ha aggiunto Rife.
Oggetto di forti critiche, anche da parte delle organizzazioni di avvocati che da anni chiedono al governo maggiore trasparenza, è anche il fatto che i due condannati avevano chiesto il riesame delle loro istanze. Nel 2014, Iwao Hakamada, era stato scarcerato dopo 45 anni nel braccio della morte, dopo un riesame andato a buon fine avendo rivelato la sua innocenza. Negli anni, il ministero della giustizia ha sospeso le esecuzioni dei condannati ricorsi in appello. Tuttavia, a luglio di quest’anno il ministro della giustizia Katsutoshi Kaneda ha interrotto questa peculiare tradizione. Nel caso di Seki e Matsui, ogni richiesta dei legali è stata vana.
Secondo dati del governo giapponese nelle carceri giapponesi oggi vivono 122 detenuti in attesa di esecuzione. Cinque di loro, ricorda il quotidiano Asahi Shimbun sono stati incarcerati quando erano minorenni (in Giappone minori di vent’anni).
Tra questi c’è anche Shoko Asahara, il leader spirituale della setta religiosa Aum Shinrikyo, responsabile degli attentati al gas sarin nella metro di Tokyo del 1995.
@Ondariva
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